Lockdown a Shanghai, parla il manager italiano rinchiuso negli hangar: «Ora sono “sigillato” a casa, il cibo scarseggia» – Il video
«Mi hanno portato in un posto senza docce, con le luci accese pure la notte, un letto durissimo, cibo in scatolette di plastica, senza medicinali e ammassato in una “stanza” con tante altre persone. Ora, dopo 14 giorni, sono a casa, con la porta sigillata, e con una città vuota. Mi sono sentito quasi un “deportato”, nel senso di prelevato all’improvviso da casa e portato via». A parlare a Open è Claudio Prataviera, 38 anni, manager di ristoranti a Shanghai, in Cina, che ha passato due settimane d’inferno. Dal 29 marzo all’11 aprile, infatti, ha vissuto in due hangar e in due ospedali in condizioni che definisce «molto difficili». La sua “colpa”? Essere risultato positivo al Covid. Claudio Prataviera, infatti, è uno dei tanti cittadini prelevati da casa e portati in strutture adibite al ricovero dei contagiati. Shanghai – 25 milioni di abitanti con oltre 25 mila casi segnalati solo domenica scorsa – è in lockdown (cominciato ufficialmente il 28 marzo) con milioni di persone chiuse in casa da settimane e con problemi nell’approvvigionamento del cibo, nonostante il governo cinese provi a minimizzare i fatti.
Cosa è successo
La disavventura di Prataviera è cominciato il 27 marzo scorso quando, prima di prendere un aereo, è risultato positivo: «Mi hanno detto di stare a casa, peccato che qualche giorno dopo, all’improvviso, mi hanno detto “passiamo a prenderti, fatti una valigia in 20 minuti e ti portiamo in ospedale”». Non ha fatto resistenza, non si è opposto e ha seguito gli ordini delle autorità locali: «Non me la sono sentita, temevo mi espellessero dal Paese, qualora avessi rifiutato il ricovero». Così è salito a bordo di un pullman con persone «che vomitavano continuamente» ed è stato portato in una sorta di hangar, che di fatto sembrava essere «una fiera con 300 posti letto per struttura». «Non c’erano docce, le luci, da stadio, erano sempre accese, persino la notte, i bagni erano quelli chimici, i letti duri come una pietra. E io stavo lì, da solo, senza poter fare nulla, con un cibo in scatolette di plastica dove c’erano riso, verdure e carne». Stop.
Le condizioni difficili in ospedale e poi il rientro a casa («sigillato»)
Il trasferimento in ospedale è arrivato tre giorni dopo: «Avevo un herpes agli occhi, fortissimo, e loro non avevano medicinali per curarmelo. Da qui la decisione di chiamare il consolato italiano e di chiedere aiuto». In ospedale, però, è restato appena tre ore. Subito dopo, infatti, è stato trasferito ancora una volta in un’altra struttura, più piccola, «più vicina al centro della città, dove la situazione era sostanzialmente la stessa» e dove «non c’erano neppure finestre». «Sembrava di stare in un teatro con le luci da stadio. Non dicevano nulla sul mio stato di salute, si limitavano a un “devi aspettare”, “non so”. Ma la cosa più assurda è che l’unico “agitato” ero io, gli altri sembravano accettassero questa situazione».
Dopo due giorni un nuovo trasferimento: stavolta in ospedale (il secondo per Prataviera), dove è rimasto fino alle dimissioni che, però, sono tardate ad arrivare: «Lì eravamo in 5 in una stanza di 40 mq. Sicuramente meglio dell’hangar. Ed è qui che, per la prima volta, mi hanno fatto un tampone». Positivo. Dopo 5 giorni l’esito negativo e le dimissioni 72 ore dopo. E non è ancora finita: trasferito a casa, nel suo condominio, dove si trova attualmente, deve restare in isolamento per un’altra settimana: «Ho i sigilli dietro la porta, non posso aprire né le porte né le finestre».
La carenza di cibo
La situazione a Shanghai, dunque, sembra essere molto difficile: «Devono capire che bisogna convivere col virus, la politica dei “zero Covid” è ormai inadeguata. Qui sono tutti terrorizzati dal virus, io per primo stavo impazzendo in quella situazione. Per non parlare poi della città, vuota, che fa paura, piena solo di persone vestite di bianco che fermano le poche auto che transitano per controlli. Hanno messo sottosopra l’economia della città…». La situazione, dunque, «è surreale, molti pianificano già di andare via. Io, ad esempio, sono qui per lavoro, se dovesse continuare così sarò costretto a guardarmi attorno…». A questo si aggiunga il cibo che inizia a scarseggiare ma non perché manchino le materie prime ma perché, tra attività commerciali chiuse e milioni di persone a casa, sono pochissimi i negozi online aperti con un delivery che funziona a singhiozzo.
«Bisogna far in fretta quando uno store è aperto, altrimenti si rischia di non trovare nulla. Per carità, nessuno sta morendo di fame, il governo ogni tanto manda pollo, anatre, verdure e riso a casa, ma c’è difficoltà a cercare cibo. Poi i prezzi sono aumentati, i delivery introvabili. Siamo arrivati al punto che qualcuno scambia le uova per altro… come carne o olio». E, infatti, diverse sono le proteste in città, come mai era accaduto prima. I cittadini sono esausti da una parte perché è difficile reperire cibo, medicinali e altri beni di prima necessità (da qui l’idea di alcune persone di organizzare gruppi di acquisto, anche all’interno dello stesso condominio), dall’altra perché nessuno sa quando e come finirà quest’ennesimo lockdown. Duro, durissimo.
Foto e video di CLAUDIO PRATAVIERA
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