Dario Fabbri: «In guerra nessuno dice la verità. L’Ue? Ne uscirà più divisa di prima» – L’intervista
Il confronto tra narrazioni opposte che si fa conflitto. La battaglia sul campo che diventa anche scontro tra informazione e disinformazione. Oltre a ridisegnare confini ed equilibri, la guerra in Ucraina ha investito chi questi cambiamenti è impegnato a raccontarli. «Quella in corso è una guerra di propagande, con toni mai visti in conflitti recenti», dice a Open Dario Fabbri, direttore editoriale della nuova rivista di geopolitica Domino, uscita oggi – 19 aprile – e in vendita su Amazon. Il primo numero, “Ritorno al futuro“, è dedicato all’analisi del conflitto in corso e alle conseguenze sul piano internazionale.
Qual è il ruolo di chi fa informazione in questo momento?
«In guerra nessuna delle parti in causa può dire la verità, perché la verità può sfaldare un fronte. C’è un tasso inevitabile di non verità in tutte le guerre… Proprio per questo, il compito di chi racconta un conflitto in corso è mantenere una visione più laica possibile per renderci immuni dalla propaganda».
Quali differenze ha avuto modo di riscontrare tra le due propagande coinvolte nel conflitto?
«La propaganda russa mira a nascondere gli eventi, cioè a raccontarli come inesistenti. Dai massacri più efferati alle difficoltà riscontrate sul terreno dall’esercito russo. Quella ucraina, al contrario, è una propaganda che mira a ingigantire la resistenza e le operazioni militari, ma non a nascondere i massacri, non a occultare ciò che di drammatico e tragico accade sul terreno. Un conto è nascondere gli eccidi, un altro è magnificare le operazioni di resistenza. Non parliamo dello stesso piano».
Ci sono due parole che hanno avuto e continuano ad avere un ruolo centrale nella narrazione del conflitto da parte di Russia e Ucraina: «denazificazione» da un lato, e «genocidio» dall’altro.
«I toni sono molto peculiari, data anche l’importanza superiore di questo conflitto rispetto a qualsiasi altra guerra recente. Abbiamo assistito a un innalzamento dei toni intollerabile. La «denazificazione» è una stupidaggine, il legittimo governo di Kiev non è certo nazista. Poi esistono fazioni interne anche alle forze armate ucraine di simpatie naziste, ma sono oltremodo minoritarie e non rappresentative dell’opinione pubblica di un Paese peraltro guidato da un presidente ebraico (Volodymyr Zelensky, ndr)».
Proprio Zelensky ha recentemente utilizzato il termine «genocidio» per descrivere le azioni russe in Ucraina. Lo stesso ha fatto prima di lui Joe Biden.
«Non si può definire genocidio ciò che sta succedendo. Per quanto sia drammatico un massacro, se per genocidio intendiamo lo sterminio totale e sistematico di un’intera popolazione, questo non sta avvenendo. Siamo davanti in entrambi i casi a termini esagerati, che non possono corrispondere alla verità. Così come era una sciocchezza quando Vladimir Putin diceva che i russofoni stavano subendo un genocidio nel Donbass».
Parlando proprio del Donbass, l’esercito russo ha lanciato nelle ultime ore una offensiva su un fronte di 480 chilometri, e ha annunciato «l’inizio della seconda fase» della guerra in Ucraina.
«I russi parlano di seconda fase, ma è già la terza. La prima fase coincideva con la volontà di prendersi velocemente tutto il Paese, ed è fallita. Nella seconda fase Mosca puntava a prendere tutto il Paese, ma lentamente, quindi cingendo d’assedio le principali città, come Kiev e Kharkiv. Anche quella è fallita. Questa è la terza fase, in cui i russi si concentreranno sulla parte orientale dell’Ucraina».
Con quale obiettivo reale?
«Credo che la Russia stia cercando di prendere l’intero Donbass e la città di Mariupol, che si affaccia sul Mar d’Azov, per raccontare a se stessa e agli altri che si tratta di una forma di vittoria. Ora è diventato il massimo obiettivo. Ma, visti gli obiettivi iniziali, questo ci segnala che qualcosa nella guerra per la Russia è andato storto, e questo è sotto gli occhi di tutti».
Quali sono le ragioni che rendono – e rendevano già nel 2014 – il Donbass così importante per Putin?
«Le ragioni sono tre. La prima è che il Donbass rappresenta il prolungamento della profondità difensiva in termini militari della Russia. La seconda è cultural-simbolica, perché è una zona abitata da una popolazione di lingua russa, di nazionalità ucraina, e che tra tutte le popolazioni di lingua russa che vivono in Ucraina è quella meno ostile o comunque più vicina a Mosca. La terza ragione ha un valore economico. Siamo nel bacino del Don, è una regione carbonifera, ma non solo; è una regione dove si concentrano le principali industrie dell’Ucraina».
Davanti alla guerra in Ucraina l’Unione europea ha provato a dare un’immagine di compattezza: è reale?
«Al contrario, questa guerra non farà altro che travalicare le distanze tra gli Stati membri. I Paesi dell’Unione europea tendono all’attrito per eccellenza, perché hanno interessi molto diversi su quasi tutti i campi. Sulla questione commerciale fanno ciò che possono, ma sul resto non si trovano quasi mai, specialmente sulla Russia».
Quanto peso ha la corsa al riarmo annunciata da alcuni Stati membri?
«Prendiamo soltanto il caso della Germania, che è il Paese più importante del continente e rischia di essere stravolto dalla guerra: ha annunciato un riarmo da 100 miliardi di euro a fondo perduto e il superamento del 2% del Pil da qui in avanti. Oggi questo riarmo viene salutato con soddisfazione dai vicini, ma parliamone tra qualche tempo. La Germania che si riarma così massicciamente fa subito paura, crea apprensione tra i Paesi del continente».
E poi c’è la Francia, che a differenza di altri Paesi Ue non vede di buon occhio il nuovo protagonismo statunitense in Europa.
«Questo intervento statunitense così importante sta schiacciando nuovamente l’Europa su Washington, dopo che in questi anni Emmanuel Macron aveva coltivato i rapporti con Putin proprio per allargare lo spazio continentale. La frase classica di Macron è “L’Europa esiste da Lisbona a Vladivostok”. Nella sua idea, la Russia doveva stare dentro il continente. La scellerata guerra di Putin ha invece consentito, dal punto di vista francese, agli americani di rientrare in pompa magna sul continente. Questo allontana molto la Francia dalla Polonia e dalla Romania, che invece sono felici di vedere così impegnati in loco gli americani. E potremmo continuare. Alla Spagna non interessa niente o quasi di quello che succede in Ucraina. All’Ungheria interessa, ma in modo opposto rispetto a Romania o Polonia: non partecipa alle sanzioni, né al trasferimento degli armamenti. La stessa Grecia ha annunciato che non trasferirà altri armamenti all’Ucraina. Io temo che, superata la fase del conflitto più duro, torneremo a dividerci anche sulla Russia».
Specie alla luce della questione energetica, destinata a monopolizzare il dibattito europeo nei prossimi mesi.
«Ci saranno botte da orbi, anche se ora fanno tutti fronte comune. Diversificare è giusto, ma ci vogliono anni. Qualcuno vorrebbe farlo subito, mentre altri Paesi frenano. È il caso della Germania, ma anche dell’Italia. Se oggi Berlino rinnegasse totalmente le importazioni di gas dalla Russia – o anche del 50 per cento – si fermerebbe. E avremmo un destino simile anche noi. Questa situazione porterà a uno scontro con gli altri Paesi europei, e anche con gli Stati Uniti».
Ai confini nord-orientali dell’Unione europea ci sono due Paesi – Svezia e Finlandia – che negli ultimi giorni sono finiti nel mirino delle minacce di Mosca per la loro intenzione di entrare nella Nato. Quanto è concreto il rischio che il conflitto in corso esondi oltre gli argini dell’ex Unione sovietica?
«Quando un Paese immagina di entrare nella Nato sa che il momento più drammatico è quello che va dalla professione di adesione all’adesione reale. In quella finestra c’è il rischio più alto di un attacco russo. Questi Paesi non sarebbero ancora formalmente protetti dalla Nato – anche se l’Alleanza potrebbe decidere di intervenire per motivi politici – e la Russia sa che dovrebbe muoversi in quel momento, altrimenti sarebbe troppo tardi. Svezia e Finlandia vogliono affrontare questa finestra adesso perché credono che la Russia sia distratta dalla guerra in Ucraina. Non si può escludere che il conflitto esondi, ma mi sembra un rischio che Finlandia e Svezia sono disposte ad affrontare. Adesso è il momento migliore».
Da una frontiera all’altra: se a Ovest i Paesi Nato – o aspiranti tali – guardano alla Russia con preoccupazione, a Est la Cina vede nel periodo post-bellico un’opportunità.
«Guardando alle tre superpotenze per eccellenza – Usa, Russia e Cina -, questa guerra rischia di far salire soprattutto le azioni di Pechino. La Russia rimarrà una superpotenza? Non si sa. Di certo la Cina si sta sfregando le mani. Vista la chiusura almeno parziale dell’Occidente alla Russia, la Russia andrà verso la Cina nel tentativo di vendere idrocarburi e grano. Pechino è pronta a pagare meno tutto ciò, è pronta a spolpare la Russia. Una Russia che si indebolisce e si avvicina alla Cina è la grande preoccupazione degli Stati Uniti, perché non è Mosca ma Pechino il grande nemico di Washington. E una Cina che si mangia la Russia è senza dubbio una superpotenza più forte di prima».
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