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Il voto in Francia, Marc Lazar: «Vincerà Macron ma dovrà vedersela con la sinistra. Meloni e Marine Le Pen sempre più diverse» – L’intervista

08 Giugno 2022 - 06:21 Sara Menafra
Il 12 giugno si vota anche in Francia, per le elezioni "legislative". Ne abbiamo parlato con il professor Lazar: «I sondaggi sono abbastanza favorevoli al presidente, Le Pen rischia un risultato molto inferiore alle presidenziali»

Professore di storia e di sociologia politica presso l’Institut d’études politiques di Parigi, presidente del Consiglio scientifico della Luiss school of government, Marc Lazar conosce bene tanto la politica francese quanto quella italiana. Non è difficile dunque per lui mettere in parallelo le elezioni legislative che si terranno in Francia il 12 e il 19 giugno con quelle italiane che dovrebbero svolgersi nei primi mesi del 2023, ma già premono sul dibattito politico quotidiano. Tra l’altro, proprio in questi giorni ha partecipato ad un progetto di Fondazione Feltrinelli sulle reti nazionali e internazionali delle destre radicali in Italia e in Europa, Di Segno Nero, altro tema che vede vari punti di contatto e nuove differenze tra Francia e Italia.  

Professore, come vede questa nuova scadenza elettorale in Francia? 

«Al momento non c’è una grande mobilitazione. Il quadro di partenza è questo: da una parte c’è un raggruppamento di piccoli partiti legati a Macron, che fanno campagna per avere la maggioranza presidenziale al parlamento, il che consentirebbe al presidente di sviluppare la sua politica pienamente. Poi abbiamo il Rassemblement national, la formazione di Marine Le Pen, che ha avuto un ottimo risultato alle elezioni presidenziali, anche se è stata battuta.

Per questo partito, e come vedremo non è il solo, le elezioni legislative possono essere difficili. Per due ragioni: il tasso di astensionismo che rischia di essere importante, soprattutto per questa formazione. L’elettorato del Rassemblement national è composto in larga parte di persone con redditi bassi e basso livello di istruzione, come operai e impiegati, poco politicizzati, che si mobilitano più facilmente per le elezioni presidenziali, più difficilmente per l’elezione dei deputati.

L’altro problema è che il Rassemblement national non è molto insediato sul territorio. Poi, c’è la piccola formazione di Eric Zemmour ma è molto difficile che conquisti deputati. C’è anche l’ormai piccolo partito di centrodestra, Les Repubblican, ai quali bisogna fare attenzione. Ovviamente la candidata alle presidenziali Valerie Pecresse ha avuto un pessimo risultato, ma questo partito ha sempre un insediamento territoriale, può contare su alcuni notabili locali, e potrà resistere. Dopo le elezioni avrà un gruppo indebolito, tentato o di andare verso la destra estrema o verso la maggioranza presidenziale di Macron, soprattutto se quest’ultimo non avrà la maggioranza assoluta.

La grande novità di questa elezione, però, è il cartello Nuova unione popolare, ecologica e sociale, dominato dalla sinistra radicale, in coalizione con i socialisti, i comunisti i verdi. Sono tutti molto indeboliti, ma la grande intelligenza tattica di Mélenchon, li spinge a puntare su 577 battaglie locali, quanti sono i collegi elettorali. Mélenchon sa che i suoi candidati non sono conosciuti sul territorio, problema analogo al Rassemblement national. Altro dato che li accomuna è il ruolo dell’astensionismo: con un astensionismo forte l’elettorato giovane e popolare di Mélenchon potrebbe non votare. Tutto questo per dire che in linea di massima Macron dovrebbe avere la maggioranza assoluta e la principale opposizione non sarà Marine Le Pen ma questo cartello della sinistra, in termini di seggi elettorali».

Quanto pesa il sistema elettorale francese su questo contesto?

«Il risultato delle legislative è un misto di atteggiamento dell’opinione pubblica su questioni di carattere nazionale, quindi il voto per un partito, per un’idea, e questa volto con la strategia di Mélenchon su una persona, ma nello stesso momento si vota anche per una persona insediata in un collegio territoriale. Nelle piccole città, o in quelle medie, il deputato è una persona prestigiosa, dal giovedi alla domenica è sul territorio, gira, ha una sede dove tutti possono incontrarlo. La dimensione locale è molto importante in Francia. Abbiamo delle proiezioni, sono complesse dato il sistema elettorale, ma quello che sembra probabile è che la maggioranza assoluta o relativa andrà a Macron, con un forte ruolo di Mélenchon. Per quest’ultimo si parla di 160 forse un po più di 200 deputati, la maggioranza assoluta è di 289, ma sarebbe comunque una presenza importante».

Quanto conterà, invece, la presenza di una forte opposizione sulla politica di Macron?

«Non molto perché le leggi della Quinta repubblica hanno indebolito il ruolo del parlamento. Se Macron avrà la maggioranza assoluta, potrà tranquillamente sviluppare il suo programma, ma in ogni caso dovrà stare attento ad alcuni fattori. Prima di tutto ci sarà la forte opposizione del cartello elettorale della sinistra che si farà sentire all’interno del parlamento. Il risultato delle elezioni presidenziali e, stando ai pronostici, quello delle legislative, dimostrano una componente di protesta populista importante nell’attuale situazione politica francese. C’è un astensionismo enorme, a cui si sommano i risultati delle forze populiste di destra e sinistra. Tutti elementi che Macron dovrà prendere in considerazione».

Nella fase pre elettorale, Macron aveva fatto aperture soprattutto a destra, con leggi contestate come quella sul “radicalismo” musulmano. Paradossalmente in parlamento ora dovrà temere più la sinistra. Ha sbagliato i calcoli?

«Il Rassemblement national non ha mai avuto un risultato così importante come quello ottenuto alle scorse presidenziali. A causa della legge elettorale non avrà lo stesso risultato al parlamento, ma dopo cinque anni di Macron la crescita del Rassemblement è un elemento decisivo, anche quando si guarda alla geografia del voto. Poi c’è la  progressione della sinistra radicale, certo. Ma non tutto è legato al ruolo di Macron, in Francia c’è una situazione sociale complicata, su cui queste formazioni hanno giocato. Sicuramente Macron s’è sbagliato pensando che sarebbe stato rieletto facilmente e che quasi automaticamente avrebbe avuto una maggioranza parlamentare ampia».

In Italia da anni le istanze populiste rafforzano soprattutto la destra, o formazioni che si presentano come lontane dagli schieramenti destra/sinistra. In Francia non è così?

«Alle presidenziali si è rafforzato soprattutto il Rassemblement national. Ricordiamo che se la progressione fosse questa, continua e costante, potremmo pensare che la prossima volta riescano a prendere la presidenza. Ma è vero che il rafforzamento della sinistra radicale è interessante al livello europeo. La Francia è un’eccezione in Europa non solo rispetto all’Italia, dove il Movimento cinque stelle ha pochi punti di contatto col cartello di Mélenchon. Dappertutto in Europa vediamo il ritorno al potere dei partiti socialdemocratici: in Spagna, in Portogallo, in Germania, nei paesi dell’Europa del Nord. L’unico paese dove la sinistra moderata crolla è la Francia».

Come mai?

«Ci sono varie spiegazioni. La prima è che una parte della sinistra è molto anti Macron e quindi guarda all’area radicale. Secondo: il partito socialista è in una situazione di grande declino,  non rappresenta più un’alternativa a Macron. Terzo: Jean Luc Mélenchon ha presentato un programma sociale ed economico classico, da sinistra anni Settanta, con grande spesa sociale e nazionalizzazioni, qualcosa che in Francia corrisponde a una certa cultura della sinistra storica. Ha, però, messo nel suo programma un elemento che non vedo in Italia: una dimensione ecologica enorme, ha fatto dell’ecologia una priorità, pari a quelle sociali ed economiche, parlando di lotta al riscaldamento globale e pianificazione ecologica. E in questo modo ha conquistato i giovani.

La maggioranza dei giovani tra i 18 e i 24 anni non va a votare, ma quelli che vanno a votare votano soprattutto per Mélenchon, soprattutto se sono giovani delle città e delle periferie perché sono molto sensibili alla tematica ecologica. Molti di loro, specie quelli con un elevato livello di istruzione, vivono una frustrazione sociale enorme perché non trovano lavori all’altezza del loro livello scolastico. Mélenchon ha anche attratto molti giovani di origine musulmana, perché ha preso posizioni di solidarietà con i musulmani che si sentono discriminati in Francia e vittime, a loro dire, di un “razzismo sistemico”. Il suo elettorato, però, è concentrato nelle città e alle periferie delle città, molto poco omogeneo a livello nazionale».

I grandi protagonisti delle scorse presidenziali e delle legislative hanno tutti partiti poco radicati a livello territoriale, compreso il partito di Macron. Conta davvero qualcosa essere radicati?

«Il partito di Macron, che ora si chiama Renaissance, ha alcuni deputati presenti sul territorio che hanno una notorietà personale. Da una parte Les Républicains e dall’altro i socialisti, una forma di radicamento ce l’hanno. Il paradosso è che questi partiti sono attualmente quasi distrutti a livello nazionale, ma hanno ancora una chance di salvarsi a livello territoriale e dunque di continuare ad esistere. Per le elezioni politiche, amministrative e regionali, conta essere radicato sul territorio. Ma conta anche per il buon funzionamento della democrazia. La debolezza dei partiti è un grosso problema in Francia».

Parlando del parallelo con l’Italia, viene subito in mente il paragone tra Marine Le Pen e Giorgia Meloni, per vari motivi,  incluso il fatto che anche il partito di Meloni è cresciuto molto e che lei potrebbe candidarsi a guidare il governo.

«Ci sono vari elementi di contatto. Sono due donne, diverse per età e storia personale, ma due donne in un mondo molto maschile e machista. Secondo elemento: sono due persone che vengono da storie personali di estrema destra, per Meloni la gioventù è stata caratterizzata dalla militanza in un partito post fascista, per Marine Le Pen il papà Jean Marie ha avuto un’attrazione enorme per il Movimento sociale, al punto che aveva scelto come simbolo la fiamma ispirandosi a quella italiana. Su alcuni temi avevano e in parte hanno atteggiamenti simili, sulla critica all’Europa e sul pericolo dell’islam radicale ad esempio. Ma ci sono differenze importanti  che ha riassunto Meloni quando, tra i due turni delle presidenziali, ha detto che Marine Le Pen non era la sua candidata. Tutte e due ormai sanno che non possono uscire dall’Unione europea ma sono per l’Europa delle nazioni.

Meloni si presenta sempre di più come una donna cattolica e conservatrice. Non è la posizione di Marine Le Pen che ha scelto di darsi il profilo della donna moderna, quasi femminista e non conservatrice. Non a caso, non sono nello stesso gruppo al parlamento europeo. Quando Meloni attacca l’Islam lo fa a nome della tradizione cattolica e cristiana, mentre Marine Le Pen quando critica la religione islamica distingue tra islamisti e musulmani francesi, che difende. Quando contesta le pratiche islamiche in Francia dice che lo fa in nome della Laicité, non in nome della religione, sicuramente perché lei non è per niente cattolica e infatti è abbastanza aperta sui temi della omosessualità e non è mai andata alle manifestazioni contro le leggi che autorizzano le unioni omosessuali, come ha fatto invece sua nipote Marion.

Marine Le Pen ha scelto questa linea per una ragione semplice: i giovani tra i 18 e i 24 che votano per lei non intendono intervenire su come vivono gli omosessuali. Anche sulla guerra in Ucraina sono diverse: Meloni si è subito schierata con la Nato, una svolta abbastanza importante, Marine Le Pen chiede che la Francia esca dalla Nato».

Che tipo di leader potrebbe diventare Giorgia Meloni se vincesse le elezioni politiche italiane? 

«Meloni sta cercando progressivamente di uscire dalla tradizione da cui viene, non è facile perché il gruppo accanto a lei è fatto in buona parte di nostalgici e questo le impedisce una rottura totale. Io sono uno specialista della sociologia dei partiti: so che se un leader vuole cambiare un partito, non può dichiarare che tutto quello che esisteva prima è nullo. Meloni deve mantenere alcuni elementi di continuità e progressivamente introdurre avanzamenti, ad esempio è interessante quanto spesso citi la Costituzione.

Dice che è una vera democratica, non abiura il fascismo è vero – limitandosi a dire “io non ero nata, perché tornate su questo'” che a me pare abbastanza strana come argomentazione – ma in ogni caso si apre a personalità venute da altri orizzonti, come si è visto alla convention nazionale del suo partito a Milano. È chiaro che se venisse eletta, ci sarebbe sicuramente delle tensione a livello europeo, ma questo ovviamente non può limitare la scelta dell’elettorato italiano».

La critica dell’Europa potrebbe impedirle di governare?

«La mia convinzione è che la democrazia italiana abbia una capacità straordinaria di assorbimento delle forze  estremiste: sa indurle al compromesso. Voi italiani vi lamentate della debolezza della vostra democrazia, ma  in realtà la democrazia italiana ha saputo ricondurre sui binari istituzionali le forze ostili al sistema. Gli esempi includono il Movimento cinque stelle e la Lega, ma anche, nel passato, Pci ed Msi.  Se sarà presidente del consiglio, penso che probabilmente Meloni sarà portata a non rovesciare in modo clamoroso il quadro esistente. Non la vedo andare in direzione di un Orban, che ha fatto leggi molto drastiche capaci di esporlo a livello internazionale. Prevarrà la mediazione tipica della tradizione italiana».

Noi siamo portati a pensare, al di là dei casi specifici, che più che mediazione sia trasformismo, che i politici italiani finiscano quasi tutti per essere corrotti dal potere. Non è così?

«Pensiamo a Luigi Di Maio che da antieuropeista, capace di causare la prima crisi diplomatica post bellica tra Francia e Italia con la visita ai gilet gialli, oggi è diventato il più europeista di tutti. È un opportunista? Forse, non sono nella testa di Luigi Di Maio, io penso però che sia un processo di acculturazione democratica. I politici italiani si rendono conto dei vincoli, del fatto che non possono fare tutto quello che avevano promesso e cambiano alcune cose. Non è compromettersi, ma cambiare il dna politico.

In Francia il problema è esattamente l’opposto. Noi siamo il paese delle istituzioni forti, il paese della rivoluzione, e la mediazione non è accettata. In Francia il 50% degli elettori hanno votato contro Macron ma in parlamento avranno un percentuale di deputati molto più basso e dunque non si sentono rappresentati, lo scarto tra risultato e rappresentanza è troppo forte. Anche così si spiega, tra altre ragioni, la radicalizzazione permanente di questa fase politica francese».

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