Le invisibili del ciclo. La storia di Lucie, affetta da disturbo disforico premestruale: «Senza diagnosi per 10 anni»
Quando Lucie ha cominciato a vedere la vita che aveva sempre amato crollare a poco a poco è stato difficile non pensare che la causa di tutto fosse lei. Quando quei cinque giorni al mese – in cui la sua mente e il suo corpo la costringevano a entrare in un mondo parallelo fatto di pianti disperati, atti violenti, disconnessione cerebrale – con il passare del tempo sono diventati dieci, poi quindici, poi venti, fino a occupare la maggior parte della sua esistenza, è stato drammatico vedere negli occhi dei medici lo stesso disorientamento da cui lei cercava di scappare. Disturbo disforico premestruale (PMDD): dopo circa 10 anni di dolore fisico e psicologico, Lucie è riuscita a dare un nome a quello che le stava succedendo. «E non si tratta di un semplice malessere o mal di testa come molti, alcuni medici compresi, vorrebbero far credere», chiarisce.
La sua battaglia è doppia, oltre alla malattia combatte gli stereotipi e i pregiudizi di chi sottovaluta la salute mentale o di chi ancora pronuncia a stento la parola “ciclo” come fosse uno dei peggiori tabù. È per questo che Lucie ha deciso di raccontare anche i momenti più critici della sua malattia, «per tutte quelle donne perse, in balìa di sintomi inspiegabili che scompaiono con l’arrivo del ciclo e che arrivano a credersi pazze ma che pazze non sono». La sua sarà una delle testimonianze del Festival del ciclo mestruale, il primo in Italia, che dal 17 al 19 giugno a Milano farà luce su molte delle realtà complesse legate alla salute mestruale e sulla libertà di parlarne senza stigmi.
«Solo 7 giorni di pace al mese»
Un amore felice, due bambini piccoli, una carriera ormai consolidata nel mondo dell’editoria e del design che la porta a girare il mondo. «Viaggiavo da Parigi a New York a Mosca. Non ho mai avuto particolari problemi di salute in generale, né problemi legati al ciclo o alle mie gravidanze», spiega. «Super attiva, sempre in movimento, con tanti stimoli che accoglievo con gioia ed energia». Poi tutto è finito. Le prime emicranie fortissime e le visite dal neurologo. Decine di esami e di visite specialistiche. «Ho cominciato a capire che erano legate al periodo del ciclo», spiega Lucie. «La situazione è completamente degenerata. Gli impulsi di rabbia sfociavano in sfoghi pericolosi per me e per la mia famiglia. Non ero più in grado di prendermi cura dei miei bambini, i miei pianti duravano per ore. Preda di una continua nebbia cerebrale che mi impediva persino la corretta pronuncia delle parole o di orientarmi in un semplice supermercato. Confusione, apatia, insonnia, bulemia, stanchezza estrema, sex blues erano alcuni degli altri sintomi che mi assalivano ogni volta».
Lucie si ritrova a vivere «senza più controllo della mia personalità e delle mie giornate». All’inizio la sua «sorella crudele», come chiama lei la versione di se stessa preda della malattia, arrivava nei cinque giorni del ciclo. «Poi ha cominciato a estendersi sempre di più fino a lasciarmi solo 7 giorni di pace al mese». Lucie racconta di momenti di blackout che arrivano puntuali ogni mese e che sconvolgono ogni volta una famiglia intera. «Lo tsunami torna sempre con un’atroce cronicità senza dimenticarsi di saltare un mese. Termina col ciclo e poi ritorna. Per questo consiglio a tutte le donne che credono di soffrire di PMDD di tenere un calendario dei sintomi per almeno tre mese, sembrerebbe ad oggi l’unico modo per essere diagnosticate», spiega.
«Ho parlato ai bambini della mia “sorella cattiva”»
Quando depressione e istinti violenti entrano a far parte della tua vita come mai avevano fatto prima, spiegare ai tuoi bambini che la loro mamma «li ama come ha sempre fatto non è per niente facile». La cosa che Lucie ha cercato prima di tutto di spiegare ai suoi figli di 9 e 11 anni è che «se la mamma piange in modo disperato non è colpa loro». Ha raccontato della sua «sorella cattiva» che ogni tanto «si impossessa della mamma e che per diversi giorni la sostituisce». I bambini hanno cominciato a confrontarsi con quello che ora chiamano «il calendario cattivo della mamma» contro cui lei stessa deve combattere tutti i giorni. «Tutto purtroppo ruota attorno alla patologia», spiega Lucie.
«Due giorni prima che cominci il periodo mi preoccupo di avvertire i miei bambini. “Ragazzi tra poco arriveranno momenti non facili”, dico. Spesso non sono in grado di accudirli o di preparare loro il cibo», continua Lucie, forte del sostegno del marito in tutto ciò che serve e del conforto di sua mamma. «Mi chiamano guerriera», si commuove, spiegando quanto sia importante per lei «sentirsi altro» dalla sua malattia e rimanere ancorata alla versione di lei senza PMDD. «Loro hanno capito con molta più facilità degli adulti perché sono liberi da tabù e pregiudizi», dice parlando ancora dei suoi figli. «Non hanno retaggi e stanno crescendo con l’idea che la salute mentale è una parte di se stessi di cui parlare e di cui prendersi cura».
«Curate per bipolarismo»
Quando Lucie ha chiesto aiuti ai primi neurologi e ginecologi, l’idea di non trovare via d’uscita dalla sua «follia improvvisa» ha cominciato ad assillarla. «Ho creduto di non avere più speranze, di aver perso il cervello», racconta ricordando una delle tante visite andate male. «Uno dei tanti medici mi spronò semplicemente “a reagire”, “ad essere più forte di semplici emicranie”, come se le mie crisi fossero frutto di un capriccio volontario o di una richiesta di attenzione». Da lì i suoi viaggi in Francia alla ricerca di una diagnosi. L’introduzione della spirale consigliata da uno dei tanti ginecologi «mi fece quintuplicare i sintomi e la durata dei disturbi». Un’agonia lunga quasi dieci anni, «tra una decina di pillole anticoncezionali differenti, psicofarmaci, crisi incontrollabili e diagnosi fatiscenti». Completamente vittima della sua “black sister”, Lucie chiede al marito di essere ricoverata in psichiatria.
«Per me quella era rimasta l’unica soluzione», racconta. «Ma l’angelo che ho vicino me lo ha impedito. “Ci sono giorni in cui la Lucie che conosco c’è ancora, questo vorrà pur dire qualcosa”, mi disse. E da lì, dopo una ricerca autonoma su internet, cominciammo da soli a ipotizzare che fossi affetta da un disturbo disforico premestruale». Ma la fortuna di avere il forte sostegno di qualcuno accanto non è di tutte. E a quel punto affidarsi a tutte le diagnosi possibili diventa l’unica alternativa per tentare di salvarsi. «Conosco donne nella mia stessa situazione che vengono curate per bipolarismo, per epilessia, per patologie che nulla hanno a che fare con il disturbo di cui siamo affette. E per questo con terapie spesso nocive», spiega Lucie. «Altre non vengono credute o prese seriamente. Curate con “erbette miracolose” di vario genere per sindrome premestruale».
«Arriverò a stare bene tra cinque anni, quando non avrò più un utero»
Lucie e la sua famiglia cominciano a bussare alle porte di nuovi ginecologi e psichiatri con il nome della possibile malattia in tasca. «Non sono specializzato ma effettivamente i sintomi corrispondono», le dice qualcuno. «Sì la patologia è questa, ma non so come curarti», altri ancora. Poi la presa in carico da un consultorio: «La ginecologa mi consiglio la psicoterapia per accettare e affrontare il mostro. Tutt’ora vado in consultazione ogni mese e mezzo da uno psicologo straordinario che mi ha aiutato nei peggiori momenti della malattia», racconta Lucie. «E’ lui che ha trovato l’’ITA-PMS, Associazione Nazionale Sindrome Premestruale e PMDD. Ho conosciuto la presidente Paola Vallarino e finalmente mi sono sentita nel posto giusto, ho sentito che qualcuno si sarebbe preso davvero cura di me». Da quattro mesi Lucie si è affidata al primo e purtroppo unico ambulatorio in Italia dedicato alle donne affette da disturbo disforico premestruale, sostenuto da ITA-PMS, e alla dottoressa Giorgia Gaia, «donna per me eroica dalla profonda sensibilità. Mi stanno salvando la vita».
«Si tratta di una patologia, non c’è nulla di legato a traumi precedenti o a cose che possiamo scegliere di non fare», spiega Lucie che dopo tentativi con «farmaci molto pesanti» ha deciso insieme alla sua dottoressa di entrare in menopausa chimica. Punture in grado di farla stare meglio ma che non riescono a combattere in modo definitivo il disturbo. «Tra qualche anno la soluzione sarà quella di un’operazione per rimuovere l’utero e le ovaie, sempre che la ricerca scientifica non decida di riconoscere a me e a centinaia di altre donne il diritto a stare bene senza “togliersi tutto”».
«A lavoro una battaglia per il diritto di stare male»
Quando il disturbo che sei costretta a combattere ti concede solo sette giorni al mese per tornare te stessa non c’è modo di riuscire a garantire un’attività lavorativa continuativa. «Da colleghi, clienti e capi ho sempre avuto grandi attestati di stima per l’energia e la positività che ero in grado di infondere. Quando la mia vita è cambiata ho provato una profonda vergogna nel dover raccontare che ero a pezzi, che quella donna brillante, che aveva sempre svolto il suo lavoro con passione, non c’era più, o quasi».
La fortuna di Lucie è stata quella di aver potuto cambiare vita e dedicarsi alla sua attività di famiglia. Poi, quando la malattia ha invaso la sua vita in modo ancora più feroce, si è reinventata con un lavoro tutto suo nel mondo del design. «Questo mi permette di stare senza lavorare a volte per settimane», spiega, «ma conosco e leggo di tante donne affette dal mio stesso disturbo che non hanno potuto fare la stessa cosa, messe all’angolo dai loro capi, licenziate, costrette a lavorare in condizioni fisiche e mentali disastrose e che spesso anche per questo hanno avuto voglia di farla finita».
Vergogna e senso di colpa i sentimenti più frequenti
Per Lucie non è difficile spiegare in una parola la condizione interiore che più l’ha accompagnata nei suoi ultimi dieci anni di vita. «Vergogna, profonda vergogna in ogni situazione di socialità, in ogni occasione in cui il giudizio degli altri poteva ferirmi a morte. E poi senso di colpa atroce che mi divora perché quando arriva l’elefante non schiaccia al suolo soltanto me ma anche le persone che amo», racconta. «Ho perso molti amici, non tutti i familiari hanno compreso, altri mi hanno trattato con il timore che si riserva alle persone con un disagio mentale. Continuamente in lotta con la chiusura di chi preferisce liquidare il tuo disagio come una mancanza di volontà o forza». La vergogna in fondo è l’effetto più immediato di ogni tabù. Di fronte all’incomprensione più totale, chi soffre si convince di avere una colpa. E a quel punto l’isolamento è una delle poche alternative.
Senza cure
Oltre alla vergogna, il sentimento con cui Lucie racconta di combattere ogni giorno è la rabbia. «La ricerca scientifica è girata completamente di spalle. Non ci sono terapie accertate, studi che possano aiutare donne ormai diagnosticate come me o ancora peggio persone che vivono nella più completa ignoranza di quello che sta capitando, sentendosi responsabili di colpe che non hanno».
«Non siete pazze»
L’appello più grande di Lucie va prima di tutti alle donne che stanno vivendo lo stesso dolore. «Voglio dire loro che non sono pazze. Che il loro stato non è una scelta, che le loro condizioni sono sintomi di una patologia e non di un capriccio. E la speranza è che attraverso il mio racconto possano riconoscere qualcosa della loro sofferenza e sentirsi meno sole in questa battaglia». L’invito è anche quello di rivolgersi all’ITA-PMS e all’ambulatorio milanese dell’ospedale San Paolo collegato, per ora gli unici fari in tutto il Paese. Nei confronti dei medici l’appello si fa ancora più forte. «Restituiteci la dignità di poter essere delle pazienti, la possibilità di avere una diagnosi, la prospettiva di una cura».
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