Retroscena – M5s, scissione ormai certa. Di Maio non si lascerà espellere. Chi se ne andrà con lui?
Il clima nel M5s si è fatto irrespirabile: a dirlo non sono i commentatori più prevenuti, ma gli stessi parlamentari del Movimento, sia quelli vicini a Giuseppe Conte che quelli pronti a seguire Luigi Di Maio. “Seguire”, perché non c’è più nessuno disposto a scommettere mezzo euro su una tregua duratura, e dopo la sentenza definitiva del tribunale di Napoli le chiavi del M5s sono saldamente in mano a Conte, e a traslocare deve essere il ministro degli Esteri. Fino alla vigilia dell’ultima decisione dei giudici napoletani l’ex premier aveva un piano B in caso di verdetto sfavorevole, la nascita di una nuova formazione con tutti i suoi fedelissimi, da Patuanelli a Taverna, da Turco a Ricciardi, da Licheri a Baldini, da Todde a Gubitosa. Ma dopo la vittoria giudiziaria di Napoli è subito stato chiaro per tutti che iniziava la resa dei conti tra le due anime. La aspettavano, gli uni e gli altri, da 140 giorni.
Perché la spaccatura, già evidente dalla nascita del governo Draghi, è diventata scontro aperto un mese prima dell’invasione russa dell’Ucraina, nella sera in cui Conte raggiunse l’accordo con Salvini su Elisabetta Belloni al posto di Mattarella (suggellato da un tweet di Beppe Grillo “Benvenuta Signora Italia, ti aspettavamo da tempo. #Elisabetta Belloni”), intesa mandata all’aria con una nota-killer firmata Luigi Di Maio: «Trovo indecoroso che sia stato buttato in pasto al dibattito pubblico un alto profilo come quello di Elisabetta Belloni. Senza un accordo condiviso. Lo avevo detto ieri: prima di bruciare nomi bisognava trovare l’accordo della maggioranza di governo (…) Così non va bene, non è il metodo giusto».
Si seppe subito che lo stop di Di Maio era parte di un’azione compiuta insieme a Guerini, l’asse che poi avremmo visto saldo sulla scena internazionale dal mese successivo. Di Maio silurò la Belloni, ma soprattutto l’intesa Conte-Salvini. Solo l’esplosione del conflitto ha rinviato il redde rationem, anche se poi è stato proprio il dibattito sulla guerra a dare argomenti allo scontro finale, creando la contrapposizione sulle armi da inviare o no agli ucraini. Conte e i suoi – pensateci – hanno affrontato la questione in queste settimane come se non ci fosse un esponente del Movimento al ministero degli esteri, e Di Maio ha agito nel governo e alla Farnesina come se non ci fossero nel M5s quelle spinte fortemente contrarie all’invio di armi a Zelensky che erano state evocate esplicitamente dall’ex premier.
Il pesante risultato delle elezioni comunali (non certo imprevedibile) è servito come ulteriore trampolino per l’uscita di Di Maio, che giovedì 16 ha fatto convocare i giornalisti e ha sparato a zero su Conte, prevenendo anche la decisione sul limite dei due mandati: una votazione tra gli iscritti che si sarebbe trasformata in un referendum su “Giggino”, anzi contro di lui. Il botta e risposta con Conte è stato soprattutto lo scarico di un’avversione reciproca tenuta troppo a lungo a freno per ovvie comuni convenienze. Ora si arriva a parlare di espulsione per Di Maio: lo fanno tutti i luogotenenti di Conte, che tace. Sicuramente ha sul tavolo la pratica, e ne valuta pro e contro.
Anche per questo c’è attesa per il Consiglio Nazionale che Conte ha convocato con urgenza per oggi. Ma è ovvio che nemmeno nella tragicommedia del M5s si può pensare il passaggio stalinista del leader che caccia l’ex leader, o un passaggio in cui Di Maio fa il Fini che provoca il Conte-Silvio, «Che fai, mi cacci?». Sarà semmai lui a andarsene con le proprie gambe, e con chi lo seguirà. Castelli, Battelli, Di Nicola si sono esposti in questi giorni. Ma i fedelissimi sono tanti: Spadafora, Macina, D’uva, Nesci…
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