Marmolada, i racconti di chi si è salvato: «Eravamo più in alto, ci siamo abbracciati e siamo rimasti accucciati»
«Che strazio quei cadaveri tra i blocchi di ghiaccio. In tanti anni mai vista una cosa del genere». A parlare è uno degli uomini del Soccorso Alpino arrivato dopo il crollo di un blocco di ghiaccio sulla Marmolada. A causarlo è stato il distacco di un seracco e stamattina riprenderanno le ricerche dei 15 dispersi (le vittime al momento sono 6). I cadaveri finora recuperati sono stati ricomposti nel Palazzo del Ghiaccio di Canazei. In serata sono arrivati i primi familiari per le identificazioni. Quattro sono stati già identificati: sono 3 cittadini italiani ed un ceco. Restano da identificare un uomo e una donna. Fra i dispersi ci sono italiani, tedeschi, cechi e forse anche cittadini rumeni.
I sopravvissuti
«Comunque è molto difficile che ci siano dei sopravvissuti — dice oggi al Corriere uno degli uomini del Soccorso alpino -. Dal sopralluogo fatto in elicottero abbiamo visto che è venuta giù una massa larga 200 metri ed alta 80. Un mare di ghiaccio e detriti che da quota 3.200 è arrivato a circa 1.800 metri. Sono rimaste ferite le persone che erano ai margini di questa marea e sono state investite dai detriti o dallo spostamento d’aria».
C’è comunque chi si è salvato per un soffio. Come Stefano Del Moro, ingegnere di Borso del Grappa, che si trovava lì insieme alla compagna israeliana. «Siamo dei miracolati. Eravamo poco più in alto rispetto al punto in cui ci sono state le vittime. C’è stato un rumore sordo, poi è venuto giù quel mare di ghiaccio. In questi casi è inutile scappare, puoi solo pregare che non venga dalla tua parte. Ci siamo abbracciati forte e siamo rimasti accucciati mentre la massa di ghiaccio ci passava davanti», racconta lui oggi al quotidiano.
Stefano e la fidanzata erano più in alto di duecento metri rispetto alle due cordate tra volte dal ghiaccio, loro erano più in alto di nemmeno cento metri. Della «cascata di ghiaccio e detriti» hanno sentito solo il soffio gelido. «Prima li vedevamo dall’alto, ma poi ci siamo girati per proteggerci». Sono tornati indietro e risaliti fino alla capanna di Punta Penia, da dove sono stati portati a valle in elicottero.
Elisa Dalvit, trentina di Grumes, affida invece il suo ricordo a Repubblica: «Siamo saliti in quattro dalla ferrata della cresta ovest, ma un quinto ha preferito l’ascensione dalla via normale, facendo la ferratina. È arrivato dopo di noi, ci siamo fermati in vetta ad aspettarlo». Questo «è stato la nostra salvezza. Altrimenti ora saremmo tutti là sotto…».