Come funziona (e dove sbaglia) la disinformazione sul cambiamento climatico
Abbiamo assistito a un ritorno di condivisioni che disseminano il dubbio sulla responsabilità umana nel cambiamento climatico. Trovate diversi esempi nella sezione di Open Fact-checking (qui, qui e qui). Forse non è un caso se tra i diffusori troviamo anche persone che partecipano alla disinformazione No vax e alla propaganda russa. Il maggiore danno lo abbiamo quando a fare questo tipo di operazione sono ambienti apparentemente autorevoli e scientifici. Esistono diversi termini per definire la disinformazione che nega questi fenomeni, i quali se affrontati danneggerebbero economicamente alcune lobby: i mercanti del dubbio sono gli attori, la strategia del tabacco è il modo in cui agiscono.
Il termine indica il modo in cui le multinazionali del tabacco foraggiarono un finto dibattito scientifico, instillando dubbi sulla cangerogenicità del fumo. «Deny, Deceive, Delay: Documenting and Responding to Climate Disinformation at COP26 & Beyond» è il titolo di un report dell’Institute for Strategic Dialogue (Isd) su come certi ambienti hanno protratto la propaganda negazionista sul cambiamento climatico. Il documento è apparso nel giugno scorso. The Guardian ne ha pubblicato una sintesi molto efficace, ma sostanzialmente è rimasto fin troppo in sordina.
I mercanti del dubbio sul clima e la loro strategia
Il report dell’Isd si rifà alla denuncia della disinformazione e la «politicizzazione della scienza», ritenute «barriere chiave all’azione», durante la COP26, l’ultima conferenza in seno alle Nazioni unite sul cambiamento climatico, tenutasi a Glasgow nel 2021. «Interessi economici e politici acquisiti minano la scienza del clima […] la percezione pubblica errata dei rischi climatici ha sostenuto la polarizzazione del pubblico sulle azioni per il clima». Gli autori del documento rilevano in particolare come la crisi climatica vada parallelamente con la crisi dell’informazione e con il proliferare della disinformazione online, che ha consentito l’emergere della «scienza spazzatura», con conseguenti ritardi negli interventi climatici, perché tutto questo condiziona a sua volta l’opinione pubblica e i governi.
La nostra analisi ha mostrato come una piccola ma assidua comunità di attori vanta una portata e un coinvolgimento sproporzionati sui social media – continuano gli autori -, raggiungendo milioni di persone in tutto il mondo e rafforzata da stampa, trasmissioni e radio tradizionali. Lungi dall’aiutare a mitigare questo problema, i sistemi di piattaforme tecnologiche sembrano amplificare o esacerbare la diffusione di tali contenuti.
Se la negazione totale della crisi climatica è rimasta ai margini della rete, si è sviluppata allora una versione più sofisticata, con narrazioni che screditano ogni tentativo di agire per cambiare le cose, o che portano a rimandare e ritardare la produzione di leggi e decreti volti a mitigare il cambiamento climatico.
Il negazionismo della nostra responsabilità
Così se da un lato scompaiono argomenti volti a negare il riscaldamento globale, dall’altro appaiono narrazioni apparentemente pro-green e pragmatiste, che si appellano alle esigenze del libero mercato e della libertà individuale.
Per capire meglio possiamo vedere come questa strategia ha funzionato anche nel negazionismo dell’emergenza sanitaria. Durante la pandemia di Covid-19 abbiamo visto gli stessi meccanismi. Pensiamo al documento intitolato Great Barrington Declaration, dove un gruppo di accademici negò l’importanza dei lockdown, favorendo invece l’immunità naturale, che non avrebbe limitato il libero mercato. Vediamo invece appelli alla libertà individuale violata quando esaminiamo le narrazioni No Green pass. In tutto questo nessuno si definisce No vax, né si nega l’esistenza del SARS-CoV-2. Che si parli di vaccini o di clima, i mercanti del dubbio si incuneano in quella linea grigia tra riconoscimento, adesione e politica.
Coloro che si oppongono all’azione sul clima possono impedire il progresso senza ricorrere alle narrazioni più tabù e negazioniste degli anni Novanta e dei primi anni Duemila – continuano gli autori del report -, queste sono tattiche ben sviluppate dalla rete di industrie storicamente inquinanti ed esportatrici di combustibili fossili, così come chi beneficia finanziariamente dello status quo.
Il consenso sul cambiamento climatico
Il report in oggetto fornisce un’ampia «tassonomia» con tutte le tipologie di argomenti utilizzati per negare e ritardare eventuali progressi contro la crisi climatica. Vediamo quali sono le principali narrazioni intercettate durante l’attività del progetto Open Fact-checking. Partiamo subito al modo distorto con cui appare il consenso nella comunità scientifica e che ruolo gioca il dubbio in essa. Dubitare infatti non è la scienza, ma quella parte necessaria che porta tutti gli esperti a verificare le pubblicazioni e gli esperimenti, in modo da aggiornare le teorie e renderle più precise. Il consenso giunge quindi alla fine, non prima dei dati.
Quando sono cominciati a emergere i primi studi che stimavano il consenso degli “scienziati climatici” sulla responsabilità umana nel riscaldamento globale si è stimato che questi fossero il 97% del totale (analisi più recenti hanno spostato questa stima al 99%). Esaltare l’esigua minoranza che produce studi negazionisti in nome del dubbio non ha alcun senso, al massimo si chiama cherry picking, ovvero la vecchia “arte” di selezionare solo i dati che ci fanno comodo, ignorando tutti gli altri, che esistono non certo perché Greta Thunberg è simpatica.
Come si è arrivati a stimare il 99% di consenso
Quando parliamo di “sondaggi” dai quali si evince la percentuale di climatologi che concordano sul cambiamento climatico, ci riferiamo a uno dei vari studi a cui fanno riferimento inizialmente John Cook et al, in una lettera apparsa su Environmental Research nel 2016. Quel 97% di consenso si evince da un campione di oltre 2400 paper. Questa si accompagna a una analisi condotta leggendo oltre 11 mila abstract di altrettante ricerche sul Cambiamento climatico. Anche così si arriva a un 97% di consenso. Come accennato studi più recenti basati sull’analisi di oltre 88mila articoli scientifici, spostano il livello di consenso al 99%. Leggiamo alcuni punti salienti dell’abstract:
Aggiorniamo i precedenti sforzi per quantificare il consenso scientifico sul cambiamento climatico cercando nella letteratura recente articoli scettici sul riscaldamento globale causato da fattori antropici. […] Nel nostro campione, utilizzando parole chiave scettiche pre-identificate, abbiamo trovato 28 articoli che erano implicitamente o esplicitamente scettici. Concludiamo con elevata sicurezza statistica che il consenso scientifico sul cambiamento climatico contemporaneo causato dall’uomo, espresso in proporzione al totale delle pubblicazioni, supera il 99% nella letteratura scientifica sottoposta a revisione paritaria.
Perché la correlazione coi gas serra non è casuale
Eppure abbiamo visto che una lettera di 500 scienziati “negazionisti” ha avuto comunque maggiore rilevanza mediatica di un’altra prodotta da veri climatologi che lavorano da una vita a studiare il cambiamento climatico, quella del Sant’Anna di Pisa, che denuncia dati alla mano, la disinformazione su riscaldamento globale. I primi firmatari erano 200, ma tutti competenti. Ne abbiamo trattato qui.
Le fonti su cui si basano gli scienziati del Sant’Anna provengono da misurazioni fatte da esperti in varie discipline correlate. È vero che ci sono stati continui cicli di caldo e gelo nelle varie ere geologiche. Tuttavia osserviamo un incremento delle temperature repentino che non trova eguali guardando a ritroso nei precedenti cicli. Se compariamo i precedenti cicli climatici nei milioni di anni, osserviamo che dal 1850 al boom economico del secondo dopoguerra, abbiamo un surriscaldamento correlato alle emissioni industriali mediante il consumo di risorse fossili. Parallelamente abbiamo avuto un aumento delle temperature che avrebbe richiesto altrimenti migliaia e migliaia di anni.
Queste alte concentrazioni di gas serra riguardano principalmente l’anidride carbonica (CO2) e il metano (CH4). Dobbiamo considerate anche altre attività antropiche, come le pratiche agricole e gli allevamenti intensivi. Solo negli ultimi due secoli abbiamo immesso in atmosfera quel che la biosfera aveva immagazzinato in milioni di anni.
Gli scenari futuri “business as usual” – continuano i ricercatori del Sant’Anna -, prodotti da tutti i modelli del sistema Terra scientificamente accreditati, indicano che gli effetti dei cambiamenti climatici su innumerevoli settori della società e sugli ecosistemi naturali sono tali da mettere in pericolo lo sviluppo sostenibile della società come oggi la conosciamo, e quindi il futuro delle prossime generazioni. Devono essere pertanto intraprese misure efficaci e urgenti per limitare le emissioni di gas serra e mantenere il riscaldamento globale ed i cambiamenti climatici ad esso associati al di sotto del livello di pericolo indicato dall’accordo di Parigi del 2015 (mantenere l’aumento della temperatura media globale ben al di sotto di 2 °C rispetto ai livelli pre-industriali, e perseguire sforzi volti a limitare l’aumento di temperatura a 1,5 °C).
Uno sguardo ai grafici
I mercanti del dubbio hanno insinuato allora che possa trattarsi di una correlazione spuria, ovvero, non vi sarebbe certezza di un collegamento causa-effetto tra emissioni di gas serra e riscaldamento globale.
Questo succedeva anche per la correlazione tra tumori e fumo di sigaretta. Analogamente la risposta migliore a queste obiezioni sta nell’osservare tutti gli altri fattori che potrebbero influenzare il fenomeno. Il clima può essere determinato infatti anche dall’orbita terrestre, dall’attività solare, dai vulcani, la deforestazione, l’Ozono, e altri tipi di inquinamento atmosferico. Se osserviamo questi fattori singolarmente o sommati assieme, come visibili nelle infografiche di Bloomberg, scopriamo che non sono affatto correlati.
Non ci rimane molto tempo?
Ma i numeri e i processi che portano al consenso nella comunità scientifica sul cambiamento climatico, e le sue conseguenze nel breve e lungo termine, non sono immediatamente accessibili all’opinione pubblica. Gli impatti e i danni che tutto questo comporta sono già nei titoli dei giornali. Abbiamo ancora una finestra di tempo da adesso fino al 2030, oltre la quale non potremo più tornare indietro. Ecco perché è importante studiare e contrastare la disinformazione su questi temi.
Leggi anche:
- Fridays for future: quattro ragioni «elementari» per combattere il cambiamento climatico
- «La natura sta benissimo», il cambiamento climatico è «un’emergenza per la salute umana»
- Sei soluzioni «scientifiche» contro i cambiamenti climatici
- Global warming e disuguaglianze, il rapporto Onu del prof. Philip Alston parla di «Apartheid climatico»
- Clima ed economia, gli effetti del riscaldamento globale: come ha inciso nel divario tra ricchi e poveri
- La malattia di Lyme sta tornando. Ed è colpa dei cambiamenti climatici
- Scirocco o cambiamenti climatici? Perché l’alta marea a Venezia ora deve preoccupare
- Perché l’uragano Dorian può essere considerato davvero un sintomo dei cambiamenti climatici
- Perché quel che accade in Amazzonia è importante per la lotta contro i cambiamenti climatici
- I ghiacci dell’Himalaya si ritirano più velocemente: lo rivelano anche i satelliti spia
- Entro la fine del secolo i cicloni nel Mediterraneo diventeranno sempre più pericolosi