«Mia figlia Alba oggi si chiama Alex»: la scrittrice Silvia Ranfagni e la storia del suo bambino non-binario
Silvia Ranfagni è una scrittrice e sceneggiatrice che ha collaborato con Carlo Verdone e Ferzan Ozpetek e ha di recente pubblicato il romanzo “Corpo a corpo” che parla di maternità. In un’intervista rilasciata a Repubblica oggi parla del suo bambino, che da 13enne le ha detto un anno fa «mamma, sono trans. Anzi, sono non binario». «La metafora che ha usato è stata questa: “Mamma, hai presenti i binari di un treno? Sono due, come maschio e femmina. Io sono come un terzo binario in mezzo che fa come un serpente che si avvicina ora dalla parte della femmina, ora dalla parte del maschio. A volte mi sveglio più maschio, a volte mi sveglio femmina, non lo so nemmeno io da cosa dipende. Mercoledì, per esempio, ero maschio», racconta la scrittrice nel colloquio con Sabina Pignataro.
«Due schiaffoni e via»
All’inizio la reazione è stata di sconcerto: «Gente più antica di me avrebbe detto: “Due schiaffoni e via”. Io invece continuavo a domandarmi: quanto un genitore deve contenere e quanto accogliere? Ho trascorso ore su internet e ho divorato libri americani. Poi un’amica mi ha indirizzato al Saifip, il servizio di un ospedale romano dove la dottoressa Maddalena Mosconi e il suo team, da trent’anni, accompagnano bambini e adolescenti con disforia di genere e le loro famiglie». Ranfagni dice che all’inizio è stato difficile, soprattutto quando le ha annunciato che non si chiamava più Alba ma Alex: «Però ancora oggi non so se chiamarlo figlio o figlia, mi ingarbuglio. Mi hanno consigliato di usare l’asterisco alla fine, oppure la u, oppure di non usare la vocale finale. La storia del non binarismo non è affatto semplice».
E il padre come l’ha presa? Qui il racconto si fa divertente: «La sua prima reazione è stata wow: “Sei mia figlia, ti amo e ti amerò sempre. Questa è la tua vita e hai il diritto di viverla come sei”. Poi però ha aggiunto che lui di binari non capisce e non ne vuole sapere nulla. In segreto, infine, mi ha confidato: “Se fosse stato suo fratello a sentirsi mezza femmina non ce l’avrei fatta, ma siccome così è più maschio… E vabbuò”. Un distillato di patriarcato». La scuola, invece, ha aiutato Alex: «Alle medie aveva un professore che faceva con i ragazzi una cosa speciale, “Il cerchio della fiducia”: ognuno a turno parlava di sé, a patto che nulla trapelasse dal cerchio. La sofferenza di Alex è emersa lì per la prima volta. Quel docente era convinto che nella scuola occorra uno spazio di parola che consente una libertà senza conseguenze».
«Quando esce io prego»
Quando il ragazzino ha cominciato a manifestare pensieri suicidi lei ha capito che accogliere era l’unico imperativo: «In questi mesi mi sono più volte interrogata sulle possibili ragioni di questo suo sentire, essere. Poi un giorno Alex mi ha chiesto: “È un problema come sono, mamma?”. La risposta è stata secca: “No, non è un problema”. È solo che è tutto nuovo per me». Però, adesso, «quando Alex esce, io prego. Ci metto tutta la mia speranza laica in questa preghiera: “Che nessuno mai possa farsi scherno di te”».
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