Patto di prova, stabilizzazione e libertà di accettare più impieghi: tutte le novità del Decreto Trasparenza
Lo spauracchio estivo delle aziende si chiama trasparenza. Il d.gls. 27 giugno 2002, n. 104, pubblicato in Gazzetta Ufficiale lo scorso 29 luglio, entrerà in vigore, infatti, il prossimo 13 agosto. Costringendo le imprese a fare i salti mortali per attuarlo. Ma se l’attenzione di tutti si concentra sugli obblighi informativi introdotti dal decreto, non bisogna dimenticare che la nuova normativa introduce novità anche su altri temi. Vediamo i più importanti.
Migliori condizioni per i lavoratori flessibili
L’articolo 10 del Decreto Trasparenza introduce una procedura definita di “transizione” verso forme di lavoro “più prevedibili, sicure e stabili”. È una procedura anomala, che si colloca a metà strada tra un diritto di informazione e un diritto di precedenza. Il lavoratore che matura almeno sei mesi di anzianità lavorativa presso lo stesso datore di lavoro o committente (in caso di collaboratori coordinati e continuativi) diventa titolare di una sorta di “diritto di candidatura”. Ovvero «può chiedere che gli venga riconosciuta una forma di lavoro con condizioni più prevedibili, sicure e stabili».
La candidatura tuttavia può essere rifiutata: l’unico obbligo che la legge fissa in capo al datore di lavoro e al committente riguarda la risposta, che deve essere scritta e motivata, da fornire al lavoratore che ha formulato la richiesta. In caso di diniego formulato dal datore di lavoro o committente, il lavoratore può presentare una nuova richiesta dopo che siano passati almeno sei mesi dalla precedente. La procedura di “transizione” non si applica a tutti i datori di lavoro. Sono esclusi dall’ambito di applicazione della norma i dipendenti delle pubbliche amministrazioni, i lavoratori marittimi e del settore della pesca e, infine, i lavoratori domestici.
Durata massimo del periodo di prova
Il Decreto Trasparenza ritocca la normativa sul periodo di prova. L’articolo 7 del decreto stabilisce che, quando le parti prevedono nel contratto un periodo di prova, il patto relativo alla prova medesima non può avere una durata superiore a 6 mesi. I contratti collettivi possono stabilire una durata diversa dai 6 mesi, ma in una sola direzione: una durata inferiore del periodo. Non è prevista, invece, la facoltà di estendere la durata della prova oltre i sei mesi. Il comma 2 dell’articolo 7 interviene sul patto di prova nei rapporti a termine, fattispecie che sembra riferissi anche al lavoro in somministrazione, considerata l’unicità della disciplina che si applica nel rapporto tra lavoratore e datore di lavoro).
La norma stabilisce che nell’ambito di tali contratti il periodo di prova deve essere stabilito “in misura proporzionale” a due elementi: la durata del contratto e le mansioni da svolgere rispetto all’impiego affidato. Il concetto di proporzionalità non viene ulteriormente declinato, e si presta quindi a possibili incertezze interpretative: sarà importante un intervento esplicativo dei contratti collettivi, per evitare che una norma del genere diventi l’ennesimo focolaio di contenzioso.
Il rapporto a termine
La legge precisa poi che se il rapporto a termine viene rinnovato per svolgere le stesse mansioni, il nuovo contratto non può essere soggetto a un nuovo periodo di prova, e si preoccupa di stabilire cosa accade nel caso di eventi sospensivi della prova; se durante tale periodo intervengono eventi quali malattia, infortunio, congedi obbligatori di maternità o paternità, il periodo di prova si allunga per una durata pari a quella dell’assenza.
La nuova normativa vale solo per i rapporti privati: per i dipendenti delle pubbliche amministrazioni continua ad applicarsi l’articolo 17 del DPR 487/1994, il quale stabilisce che la durata del periodo di prova è stabilita dalla contrattazione collettiva del settore pubblico.
Pochi limiti ai doppi lavori
Il Decreto Trasparenza all’articolo 8 stabilisce un principio molto importante: un datore di lavoro non può imporre al dipendente la c.d. clausola di esclusiva. Ovvero il divieto cioè di svolgere un’attività aggiuntiva rispetto a quelle oggetto del suo contratto. Il dipendente potrà, quindi, fuori dall’orario di lavoro avere maggiore libertà. Già oggi questo principio era ricavabile in via interpretativa ma in un quadro di maggiori incertezze. Il lavoratore che svolge un altro impiego ha diritto di non ricevere un trattamento meno favorevole.
Ci sono delle eccezioni al divieto. In alcuni casi il datore può chiedere l’esclusiva, come quando l’eventuale lavoro aggiuntivo possa recare un pregiudizio alla salute del lavoratore (ad esempio per un orario troppo lungo), quando metta a repentaglio l’integrità di un servizio pubblico oppure, anche senza violare il dovere di fedeltà, l’altro impiego possa generare un conflitto di interessi con il primo datore.
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