Birmania, l’ex leader Suu Kyi condannata ad altri sei anni per corruzione
Un tribunale della giunta militare della Birmania ha condannato «a sei anni di reclusione per quattro accuse di corruzione» Aung San Suu Kyi, l’ex leader democratica del Paese destituita dal colpo di Stato militare dell’1 febbraio 2021 nell’ambito del quale era stata arrestata. La donna si trova ora in isolamento in un carcere di Naypyidaw, la capitale birmana. Dopo il colpo di stato, infatti, era già stata condannata una prima volta a 5 anni di di reclusione, inflitti per aver violato le restrizioni in vigore per prevenire la diffusione del Coronavirus, per l’importazione illegale di walkie-talkie, e per aver ricevuto 600 mila dollari e oro in tangenti da parte di un viceministro. Allo stato attuale del processo, Kyi, dovrà scontare in carcere 11 anni in totale, ma le possibilità che diventino di più sono concrete. Ancora da valutare in aula, infatti, sono ulteriori accuse per corruzione, oltre a quelle per la violazione del segreto di Stato, frode elettorale e sedizioni. Se venissero confermate, la 77enne potrebbe anche finire la propria vita in cella.
Un processo a porte chiuse
La notizia della nuova condanna è stata confermata all’agenzia Ansa da un testimone oculare che avrebbe chiesto di rimanere anonimo. Secondo la fonte, Suu Kyi è apparsa in tribunale in buona salute. Reperire informazioni sul processo è particolarmente complicato poiché questo si svolge da un anno a porte chiuse. Oltre a ciò, agli avvocati della donna è proibito parlare con la stampa o rilasciare dichiarazioni a organizzazioni internazionali. Alla notizia della nuova condanna è arrivata la replica del Dipartimento di Stato degli Usa che ha definito la decisione del tribunale «un affronto alla giustizia e allo stato di diritto», ha fatto sapere un portavoce, ribadendo l’ingiustizia dell’arresto e della condanna.
Suun Kyi, 77 anni, premio Nobel per la pace nel 1991, si batte da anni per far diventare la Birmania un Paese democratico. Nel 2015 il suo partito aveva vinto le elezioni e l’anno dopo lei stessa si era insediata in una posizione che la rendeva de facto capo del governo. L’aveva ottenuta dopo anni di difficoltà e proteste che dal 1989 al 2010 le erano costate un ventennio quasi ininterrotto agli arresti domiciliari. Durante il suo periodo al governo la leader era scesa a patti con l’esercito, che in Birmania, per costituzione, detiene il 25% del parlamento e alcuni ministri chiave come Interni e Difesa. Il compromesso con i militari è costato a Suu Kyi parte della propria credibilità, che ha subito un colpo ulteriore quando difese l’esercito birmano dalle accuse di persecuzione nei confronti della minoranza etnica dei Rohingya.