Fuorisede, gli elettori dimenticati: ecco perché milioni di giovani e meridionali sono a rischio (involontario) di astensione
La legge è uguale per tutti, a meno che tu non sia un fuorisede. Il prossimo 25 settembre gli italiani sono chiamati alle urne, ma anche in quest’occasione uno dei protagonisti rischia di essere l’astensionismo. E non necessariamente per scelta: in Italia, infatti, la legge prevede solo poche deroghe per chi abbia intenzione di votare nella propria città di domicilio, e non in quella di residenza (ad esempio nel caso dei militari). Dunque, anche quest’anno, circa 5 milioni di cittadini dovranno scegliere se tornare a casa per esprimere la loro preferenza. Uno spostamento obbligatorio e complicato, gravoso soprattutto per chi ha meno disponibilità economiche, come nel caso di studenti e lavoratori precari. Una grande fetta di elettorato che rischia di rimanere inespressa: sono dunque i giovani ad aver perso interesse per la politica, o la politica a non aver interesse nei confronti dei giovani?
1 su 5 a rischio astensionismo (involontario)
La fotografia più aggiornata sull’elettorato italiano è offerta dai dati Istat raccolti nel libro bianco Per la partecipazione dei cittadini. Come ridurre l’astensionismo e agevolare il voto, la relazione delineata da una commissione di esperti su indicazione del ministro per i Rapporti con il Parlamento Federico D’Incà (M5s). Dal documento risulta che nel 2018, anno delle ultime elezioni politiche, i cittadini italiani maggiorenni che studiavano o lavoravano erano 22,7 milioni. Tra loro, i fuori sede erano 4,9 milioni: più di una persona su 5.
Alle urne, quell’anno, il dato della partecipazione fu il più basso della storia Repubblicana: l’affluenza si attestò al 72,9% degli aventi diritto per la Camera e al 73,01% per il Senato. Un dato critico ma non sorprendente: non mostra altro che l’ultima tappa del trend discendente iniziato nei primi anni 2000. Alle elezioni del 2013, l’affluenza fu del 75,2%.
March 5, 2018
Dall’analisi del libro bianco, emerge come tra le cause principali dell’astensionismo involontario ci sia la difficoltà a esercitare il proprio diritto di voto a causa della lontananza dalla città di residenza. Le problematiche che conseguono a un trasferimento sono molteplici. Per le elezioni alle porte, tutto lascia presagire che torneranno a farsi sentire con eccezionale prepotenza. A settembre, tanto per cominciare, gran parte degli studenti universitari si trova in sessione d’esame, elemento che può indurre molti a decidere di non partire. Non solo. Affrontare il viaggio è un costo che non tutti possono sobbarcarsi, specialmente gli studenti che non lavorano, nonostante le agevolazioni talvolta offerte dalle compagnie dei trasporti. Inoltre, queste elezioni dureranno un solo giorno, il 25 settembre: un disincentivo ulteriore ad affrontare il viaggio, soprattutto per tratte particolarmente lunghe.
Il ritardo della politica
Un problema quasi solo italiano: fatta eccezione per Cipro e Malta, il nostro Paese è l’unico in Europa a non contemplare nemmeno una modalità di voto a disposizione dei fuorisede. Paradossalmente, per i cittadini italiani è più facile votare se vivono in un’altra Nazione. Per eleggere i membri di Camera e Senato, infatti, chi si trova all’estero per motivi di lavoro, studio o cure mediche ha la possibilità di votare per corrispondenza. Chi invece ha semplicemente cambiato regione, mantenendo la residenza nella propria città d’origine, è costretto ad arrangiarsi.
E questo nonostante negli anni il tema abbia attirato l’attenzione non solo dell’opinione pubblica, ma anche della politica. A maggio 2021, la Commissione Affari costituzionali della Camera ha iniziato l’esame di cinque proposte di legge sul tema. Giuseppe Brescia (M5S), relatore di tutte le proposte in commissione, è anche depositario di una di esse. Si tratta di una proposta di iniziativa popolare redatta dai costituzionalisti Salvatore Curreri e Roberto Bin su richiesta del Collettivo Peppe Valarioti, composto da studenti, lavoratori e ricercatori calabresi. Le altre quattro, invece, sono di iniziativa parlamentare: quelle di Enrico Costa (Azione) e Felice Maurizio D’Ettore (Coraggio Italia), riguardo le elezioni comunali e regionali, e quelle di Marianna Madia (Partito democratico) e Massimo Ungaro (Italia Viva) per le elezioni politiche.
Fuorisede ed elezioni politiche: il contenuto delle proposte
La prima delle due proposte citate per le elezioni politiche venne depositata il 28 marzo del 2019, e il suo esame è iniziato circa due anni dopo, all’inizio del maggio 2021. Si componeva di sei articoli: veniva sostanzialmente ipotizzata la possibilità di votare in un seggio diverso da quello del proprio comune di residenza a fronte di motivi circostanziati di studio, lavoro o cura certificati al momento della domanda. Il meccanismo sarebbe dovuto scattare, tuttavia, solo in caso di una distanza «rilevante» tra i due comuni. La domanda sarebbe potuta essere fatta unicamente per via telematica e tramite riconoscimento con l’identità digitale SPID, entro quarantacinque giorni dalla data prevista per la consultazione elettorale.
La seconda proposta invece, su iniziativa di Ungaro (Iv), si componeva di un solo articolo. L’obiettivo, anche in questo caso, era il riconoscimento ai cittadini che si trovano fuori dalla regione di residenza per motivi di lavoro, studio o cure mediche della facoltà di esercitare il diritto di voto nel luogo in cui sono domiciliati. Anche in questo caso veniva richiesta la presentazione di documenti che attestassero i motivi del domicilio. Il comune nelle cui liste l’elettore era iscritto, così come quello di domicilio, avrebbero dovuto provvedere rispettivamente alle verifiche e al rilascio dell’autorizzazione al voto.
Lo stop di luglio
Diverse strategie, dunque, per risolvere un problema che rimane ancora ben presente. A maggio 2021, le 5 proposte di legge vennero bloccate dal Ministero dell’Interno dopo l’inizio del loro esame da parte della Commissione Affari costituzionali della Camera. Fra i dubbi del dicastero guidato da Luciana Lamorgese, venivano rilevati i possibili ritardi nello spoglio delle schede e il rischio di riconoscibilità del voto. Pericolo che si sarebbe manifestato nel caso in cui un solo elettore avesse votato in un’altra città, a distanza, per il proprio comune di residenza.
Secondo Marianna Madia, però, se non abbiamo ancora risolto il problema la colpa non è solo degli ostacoli burocratici. «Oltre a difficoltà tecniche, non c’è mai stata la volontà politica», dichiara a Open. «La proposta era a un passo dall’approvazione: era infatti già calendarizzata in aula per il mese di luglio dal partito democratico. Poi è caduto il governo e la proposta è implosa». Quella delle prossime elezioni, infatti, ha tutta l’aria di un’occasione persa. La speranza è che sia l’ultima: «L’astensionismo cresce ed è una piaga che indebolisce la nostra democrazia. Far votare chi vuole votare è un dovere», conclude Madia. E nell’attesa di un futuro più roseo, c’è chi ha iniziato a rimboccarsi le maniche.
«Una legge elettorale contro la Costituzione»
A seguito della poco tempestiva risposta della politica, sono nati diversi comitati e organizzazioni per farsi carico del problema. Uno di questi è il Comitato Io voto fuori sede, nato nel 2008 e ideatore di una petizione per il diritto di voto ai cittadini in mobilità, assieme a The Good Lobby, organizzazione no-profit che promuove la partecipazione dal basso con strumenti di lobbyng. Il Comitato ha di recente notificato un ricorso civile contro la presidenza del Consiglio dei ministri e il ministero dell’Interno, con l’obiettivo di un rinvio alla Corte costituzionale: la loro intenzione è ottenere la dichiarazione di incostituzionalità dell’attuale legge elettorale, nella parte in cui ostacola il diritto di voto dei fuorisede.
«Speriamo che la magistratura arrivi prima della politica. C’è una discriminazione sotto vari punti di vista, a nostro avviso. L’art. 3 della nostra Costituzione, per esempio, afferma che gli ostacoli alla partecipazione dei cittadini alla vita democratica del Paese, che in questo caso sono evidenti, vanno rimossi», spiega a Open Stefano La Barbera, presidente del Comitato. «C’è poi una discriminazione in base alla posizione professionale o sociale che si occupa: per esempio, i militari possono votare a distanza, così come i detenuti e i malati. Discorso analogo per i cittadini che vivono all’estero. Se il diritto viene riconosciuto ad alcuni, non si capisce perché non debba venire riconosciuto ad altri», prosegue La Barbera.
Pochi (e chiari) election day
«Sarebbero necessari essenzialmente due elementi, per consentire il voto a distanza nel nostro ordinamento», suggerisce il presidente del Comitato, segnalando come vengano citati anche nel Libro Bianco. «Prima di tutto, l’election pass: la digitalizzazione delle schede elettorali». Sostanzialmente, l’introduzione certificati elettronici da scaricare sul proprio smartphone, sulla falsariga del Green Pass creato in pandemia. Ad essi andrebbero accompagnate app per verificarli in tempo reale. Così facendo sarebbe possibile votare a distanza, non solo nei seggi ma anche negli uffici postali, anche fuori dal comune di residenza.
«In secondo luogo, l‘election day: un raggruppamento di tutte le votazioni, dalle europee alle comunali, in massimo quattro giornate elettorali all’anno». Appuntamenti prevedibili e conoscibili, che favorirebbero l’organizzazione e di conseguenza la partecipazione di tutti i cittadini, soprattutto giovani e meridionali, alla vita democratica del Paese. Se questo progetto si concretizzerà mai, dovranno deciderlo gli esponenti politici che verranno eletti il 25 settembre. «Quando si formerà il nuovo Parlamento», conclude Madia, «bisognerà depositare nuovamente la proposta di legge e accelerarne l’approvazione».
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