Elezioni Usa 2016, team di ricercatori accusa: «Una rete di account fake ha diffuso messaggi pro-Occidente»
L’operazione tentacolare di propaganda filorussa orchestrata sui social, che spesso e volentieri ricorre a fake news e disinformazione, è ormai ben nota. Più volte condannata, potrebbe tuttavia non essere un modus operandi circoscritto al Cremlino. Almeno questo è quello che rivelano i ricercatori dello Stanford Internet Observatory (SIO) della prestigiosa università americana e di Graphika, una società di ricerca privata: Twitter, Facebook e Instagram avrebbero chiuso una serie di account che sembravano condurre un’operazione di influenza pro-Occidente in lingua russa. Una campagna che, come racconta Vice, sarebbe durata 5 anni.
La strategia sui social
Le tecniche adottate rispecchiano in maniera quasi identica quelle a cui ha fatto ricorso il governo russo per le elezioni americane del 2016. Con l’unica differenza che in questo caso, ad essere screditate sarebbero state nazioni come Russia, Cina e Iran. I ricercatori hanno spiegato che «l’indagine congiunta ha trovato una rete interconnessa di account su Twitter, Facebook, Instagram e altre cinque piattaforme di social media che utilizzavano tattiche ingannevoli per promuovere narrazioni filo-occidentali in Medio Oriente e Asia centrale».
Nonostante alcuni profili fossero attivi sin dal 2012, il grosso del lavoro sarebbe stato messo in campo negli ultimi 3 anni. Il set di dati di Twitter copriva 299.566 tweet di 146 account e il set di dati Meta ne includeva 39 profili Facebook, 16 pagine, due gruppi e 26 account Instagram. Anche in questo caso si sarebbe trattato di un’operazione coordinata: gli utenti copiavano e incollavano le stesse notizie e post su diversi account, provando a stimolare l’interazione del pubblico, chiedendo ad esempio di esprimere la loro opinione attraverso i commenti.
I bersagli della disinformazione
Finti giornalisti e finti influencer, che si presentavano con foto prese da siti di incontri o da Internet e poi modificate nel tentativo di camuffarne l’identità originale. Spesso si concentravano sulla Russia, criticandone proprio l’attività di propaganda. La descrivevano infatti come «un attore nefasto che lavora per minare le democrazie indipendenti» e diffondere il sentimento anti-occidentale. Nel caso della Cina, avrebbero utilizzato un mix simile di notizie false, post copiati, meme e volti generati dall’intelligenza artificiale per attaccarla riguardo il genocidio degli uiguri. I post rivolti all’Iran si concentravano invece su Hezbollah e su questioni umanitarie, confrontando ad esempio le opportunità a disposizione delle donne iraniane con quelle occidentali.
Le società avrebbero collaborato, eliminando i profili segnalati e offrendo dati ai ricercatori, ma non hanno pubblicato i risultati delle loro ricerche. Secondo quanto scrive il report, Meta avrebbe scoperto che il «Paese d’origine» della disinformazione era l’America, mentre Twitter ha affermato che i «presunti Paesi d’origine» erano Stati Uniti e Gran Bretagna. I risultati sarebbero stati ottenuti attraverso un’analisi degli indicatori tecnici di geolocalizzazione più frequentemente visualizzati. Bisogna specificare che questo tipo di operazione, secondo quanto emerge, avrebbe avuto poca presa sugli utenti. La maggior parte dei post e dei tweet esaminati dai ricercatori ha ricevuto una “manciata” di Mi piace o retweet e solo il 19% degli account nascosti identificati aveva più di 1.000 follower, afferma il report. Una cosa, comunque, emerge con chiarezza: nell’epoca dell’Infowars, le notizie sono artiglieria. E, nonostante condannino a gran voce operazioni di questo tipo, sembra che gli Usa non abbiano intenzione di rimanere disarmati.
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