Crisi energetica, il viceministro Pichetto Fratin: «Il price cap al gas russo non basta, serve un tetto massimo per tutti i venditori. E l’Europa è divisa»
Le sensazioni, al terzo piano di Palazzo Madama, sono le stesse che si provano durante un trasloco qualsiasi. Nostalgia, forse ansia. Negli uffici di Forza Italia, tra gli scatoloni, un senatore guarda la parete e si dispiace perché non può portare via con sé una cartina geografica della sua regione: il quadro reca il codice dell’inventario di Palazzo Madama, deve restare qui. Ci accoglie in un’altra stanza il viceministro dello Sviluppo economico Gilberto Pichetto Fratin. Nel governo Draghi, gli è stata affidata la delega alle politiche industriali e alle piccole e medie imprese. Il viceministro non nasconde un certo rammarico verso l’esecutivo: «Un governo talmente largo che è stato in grado di affrontare l’emergenza, ma non ha avuto la capacità di progettare sul medio-lungo periodo». Nello specifico, stiamo parlando della questione energetica. Il forzista diffida dalle soluzioni semplici per risolvere la crisi del gas, piuttosto invita a valutare un insieme di azioni che «si sarebbero dovute fare prima, ma già dalla scorsa primavera il governo si è impantanato in un’aria di campagna elettorale. Difficile lavorare insieme, impossibile mettere d’accordo chi dice “no” a tutto e chi vorrebbe invece investire sul nucleare, prendere il gas dall’adriatico».
Viceministro, si guarda all’imposizione di un price cap al prezzo del gas come a un passo decisivo per la risoluzione della crisi energetica. È ottimista anche lei a riguardo?
«Quella del price cap è solo una delle tante strade da percorrere. Ed è percorribile soltanto se trova consenso negli altri Paesi. Bisogna innanzitutto capire se questo tetto vale per tutti i fornitori di gas o solo per la Russia. Perché il nostro problema è il prezzo del gas complessivo, un prezzo che va mitigato con tutti i fornitori, compresi Norvegia, Stati Uniti, Algeria. Questo non può essere fatto se non si stipulano accordi di medio periodo e che diano garanzie vere ai Paesi fornitori. Ad oggi, ci sono stati degli egoismi da parte dei Paesi fornitori. Ad esempio, con la crisi pare che la Norvegia abbia incassato 80 miliardi di extraprofitti. Ha beneficiato di una quotazione altissima, 250-300 megawattora rispetto ai 20-25 euro del passato».
In seno all’Unione europea, perché non si è agito prima? Oggi la presidente della Commissione ha fatto delle proposte, ma sono ancora tutte da approvare e l’autunno è alle porte.
«La causa è stata la diversa velocità dei Paesi europei nel reagire alla crisi. L’Europa è stata farraginosa già solo nel riunirsi per trovare soluzioni al problema del gas. Per capirci, Portogallo e Spagna hanno messo un tetto interno, ma avevano già un sistema di approvvigionamento staccato rispetto alla Russia e ai canali ordinari, inoltre hanno un peso delle rinnovabili rilevante e quindi una minore dipendenza diretta dalle forniture di gas russo. La Francia ha più di 50 centrali nucleari sul suo territorio, perciò soffre molto meno la questione dell’energia elettrica, che per l’Italia invece è strettamente legata al gas: la metà della nostra energia elettrica deriva dal gas. La Germania, che è il Paese che più soffre la questione russa, ha manifestato una lentezza, una debolezza del proprio governo rispetto all’era Merkel, che era molto più determinata, perché è un governo di coalizione molto ampia, coalizione poco compatta rispetto al tema energia. L’Europa è un puzzle di tanti Stati, di tante posizioni politiche e sul fronte dell’energia di tanti sistemi diversi di approvvigionamento».
La Germania, perlomeno, ha un bilancio in ordine che le consente di intervenire con più forza a sostegno di famiglie e imprese. E l’Italia?
«L’Italia soffre il fatto che per decenni ha pensato di procurarsi il gas come se fosse su un menu à la carte. Si è creduto che, per acquistare le materie prime, bastasse andare nel negozio e comprare ciò che serviva. Non dimentichiamoci che siamo il dove, fino a un anno fa, c’era chi non voleva il Tap e sul tema Tap si è giocata l’elezione del 2018. Il primo partito nel parlamento era quello del “no Tap”. A fianco di questo partito, c’era un’intera regione, la Puglia, a guida Pd, contraria al Tap. Si stava fermando un tubo invisibile che viaggia per pochi chilometri e 10 metri sotto terra. Così come per i rigassificatori…».
Ecco, a proposito di rigassificatori: il sindaco di Piombino, di Fratelli d’Italia, si oppone alla realizzazione dell’opera. Giorgia Meloni dice “sì”, ma solo in assenza di alternative poiché “Piombino è una città che ha già pagato molto anche per l’assenza di bonifiche”. Ma tutti sanno che il porto di Piombino è l’unico in Italia in grado di rendere operativa la nave rigassificatrice dalla primavera del 2023.
«Mi rendo conto della complessità delle battaglie locali, se fossi di Piombino avrei preferito avere il rigassificatore a Viareggio o a Capalbio. Ma un governo nazionale deve fare valutazioni per tutti gli italiani, pur a fronte del disagio di una comunità. Anche se, rispetto a questo disagio, ci sono altre realtà come Ravenna che, chiedendo le opportune garanzie e compensazioni, hanno detto “sì”. I localismi, in un Paese come l’Italia, sono sempre stati una grande forza, sia chiaro. Ma in certi momenti, un governo dovrebbe avere la capacità di decidere».
Il gas liquido costa molto di più del gas via tubo. Rigassificare è una soluzione intrinsecamente temporanea?
«I rigassificatori devono essere pensato come una soluzione temporanea, ma per il medio periodo. Ovviamente, la strategia di approvvigionamento sarà correlata al prezzo: se avessimo dei gasdotti che ci portano il gas necessario dal Nord Africa a un prezzo più conveniente rispetto a quello delle navi gasiere che arrivano con il Gnl dagli Stati Uniti, è ovvio che faremmo una valutazione sulla convenienza. La temporaneità è data dal fatto che noi adesso dobbiamo fare delle scelte, soprattutto il futuro governo dovrà fare delle scelte molto decise sulla prospettiva di togliere gran parte di quei “no” che vengono detti a tutto. Noi siamo il Paese dei “no”. Siamo il Paese dove si dice “no” persino alla pala eolica sulla diga foranea di Genova, che è un muro, non un’opera d’arte. Se in quel caso la pala eolica crea inquinamento visivo, allora mi si deve proporre un’alternativa. “Non voglio il fotovoltaico a terra”, “non posso autorizzare il fotovoltaico sui tetti perché le case hanno più di 50 anni”. Poi, però, io devo essere il primo a dire non accendo il fornello e illumino casa con le candele».
Ciò che trapela dal ministero della Transizione ecologica sulle risposte alla crisi energetica la convince?
«Dovremmo intervenire più seriamente per sostenere le famiglie, al di là di allungare l’ora legale, non tornare all’ora solare, abbassare di due gradi i termostati, obbligare le persone a vestirsi di più… insieme a questa serie di interventi va assolutamente preso in considerazione un meccanismo di prezzo amministrato a livello nazionale per le famiglie. Un calmiere nazionale. Certo, bisogna calcolare quanto peserebbe sulle casse statali, ma se si va avanti seguendo questo tipo di sistema, con i prezzi del gas che raddoppiano all’improvviso, il problema sociale ce lo dobbiamo porre. Un problema sociale dal rischio enorme. Stessa cosa va fatta sulle imprese, con meccanismi diversi. Tutti questi ragionamenti saranno in capo, ormai, al prossimo governo».
C’è chi invoca lo scostamento di bilancio: lei è d’accordo?
«La posizione di Forza Italia sullo scostamento di bilancio è questa: dobbiamo agire, fin dove è possibile, senza scostamento. Lo scostamento si deve fare qualora non si avesse altra soluzione per salvare le imprese e il Paese. Non deve essere un danno: uno scostamento di bilancio non concordato con l’Unione europea può generare degli effetti sullo spread che penalizzano il Paese e le famiglie. Vorrei semplicemente ricordare cosa causerebbe, nel caso, un aumento dello spread per quelle famiglie che devono pagare la rata del mutuo a tasso variabile. Voglio sottolinearlo. Gli elementi per fare uno scostamento di bilancio devono essere: consenso dell’Unione europea e una definizione dei parametri insieme alle istituzioni europee, a seguito di una manifesta necessità di intervento che l’Italia non è in grado di fare senza scostamento».
Tra le possibili ipotesi sul tavolo, un documento fatto circolare dalla presidenza ceca del Consiglio Ue parla di un generico intervento della Banca centrale europea. Armando Siri, della Lega, è più esplicito e afferma che se la Bce scendesse in campo con un proprio fondo sulla Borsa del Gas ad Amsterdam, nel giro di 24/48h gli speculatori resterebbero a bocca asciutta e i prezzi si stabilizzerebbero.
«È chiaro che un ombrello finanziario che funziona da fondo di garanzia è un contributo alla risoluzione della crisi. In quel caso, si tratterebbe di meccanismi per cui il fondo di garanzia interviene in acquisto e rivendita quando i prezzi oscillano oltre un certo valore. Ed è un po’ il ruolo che le banche centrali hanno ricoperto nella storia, dagli accordi di Bretton Woods del 1944 in avanti, intervenendo per mantenere un cambio stabile tra il dollaro e le monete europee. Tornando alla domanda, è uno degli strumenti da prendere in considerazione contro gli eccessi di oscillazione, ma non cura all’origine quello che è il male, ovvero il prezzo base dal gas. Sono tante le soluzioni da dover applicare: il disaccoppiamento, una trattativa per nuovi contratti a medio termine con i fornitori…».
Non mi spiego come l’Italia a trazione Draghi non sia stata in grado, a livello europeo, di far valutare queste soluzioni già nei mesi scorsi.
«Perché, ripeto, ci sono velocità diverse dei vari Stati: qualcuno nella scorsa primavera non sentiva il dolore dell’aumento del costo del gas. La Francia, fino a qualche giorno fa, non dico che se ne fregasse, ma quasi. Adesso Macron, più per avere un ruolo europeo probabilmente visto che la Francia l’energia se la produce, sta aumentando l’attenzione sul tema gas».
Qual è stato l’errore del governo sul calcolo degli extraprofitti in materia energetica? Era stato annunciato il recupero di un gettito pari a 4 miliardi di euro. Ne è entrato appena un miliardo.
«Innanzitutto si è trattato di una norma elaborata troppo frettolosamente, con un criterio di difficile applicazione. Ad ogni modo, la scadenza è a ottobre, quindi il gettito di un miliardo andrà misurato alla scadenza e potrebbe aumentare. Già adesso, comunque, si sta lavorando per correggere il criterio: il rischio serio era che, per tassare l’extraprofitto, si finiva con il colpire anche gli investimenti».
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