«Depistaggio su Cucchi per non rovinare le carriere dei militari coinvolti», ecco le motivazioni della sentenza sui vertici dell’Arma di Roma
«La versione ufficiale dell’Arma dei Carabinieri sulla morte di Stefano Cucchi» è «stata ‘confezionata’ escludendo ogni possibile coinvolgimento dei militari così che l’immagine e la carriera dei vertici territoriali e, in particolare, del comandante del Gruppo Roma, Alessandro Casarsa, non fosse minata». E’ duro il giudizio da parte del tribunale monocratico di Roma che ha depositato oggi le motivazioni della sentenza con cui, lo scorso aprile, ha condannato otto carabinieri ritenuti responsabili dei depistaggi avvenuti dopo la morte di Stefano Cucchi (il giovane morto nell’ottobre del 2009, ad una settimana dal suo arresto). «L’ampia istruttoria dibattimentale ha permesso di ricostruire i fatti contestati e di accertare un’attività di sviamento posta in essere nell’immediatezza della morte di Stefano Cucchi, volta, ad allontanare i sospetti che ricadevano sui carabinieri per evitare le possibili ricadute sul vertice di comando del territorio capitolino». Prosegue il giudice. Il depistaggio è iniziato nel 2009 ma è poi ripreso a partire dal 2015 quando la procura di Roma ha deciso di riavviare l’inchiesta, spiega il giudice. A quel punto, l’obiettivo del depistaggio è diventato celare i falsi risalenti al 2009 (coinvolgenti il Comandante del Gruppo di allora, il Colonello Alessandro Casarsa e il suo più stretto collaboratore, il tenente Francesco Cavallo in servizio in quel momento presso il Comando Provinciale di Roma, contiguo all’ufficio del Comandante del Reparto Operativo, Colonnello Lorenzo Sabatino) «considerata la qualità dei protagonisti e dei rapporti tra alcuni di loro» con lo scopo, tra l’altro di «svilire la credibilità di Riccardo Casamassima, teste rilevante per l’ipotesi accusatoria».
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