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Congresso Pd, Boccia: «Più potere ai circoli che alle correnti». Alleanze con M5s e Terzo Polo? «Loro stanno pensando ai loro gruppi di interesse, non al Paese»

05 Ottobre 2022 - 19:28 Felice Florio
francesco boccia
francesco boccia
Dopo tre legislature da deputato, il commissario Dem della Campania sta per iniziare la XIX legislatura da senatore. Nei prossimi mesi, tuttavia, la sfida più grande è quella di risollevare il partito

Folle parlare dello scioglimento del Partito democratico, «ragionamento da élite autoreferenziale». Precoce, poi, decidere le alleanze, «ma non perché non siano essenziali – piuttosto perché – in questo momento M5s e Terzo polo non stanno pensando al Paese, ma alle loro famiglie. E con famiglie intendo gruppi di interesse». Francesco Boccia, ministro per gli Affari regionali del governo Conte due, è stato appena eletto nelle file del Pd. Dopo tre legislature da deputato, passerà a Palazzo Madama. Ma prima di qualsiasi intervento nelle nuove vesti di senatore, parlerà domani – 6 ottobre – nell’attesa direzione del Partito democratico, quando dovrebbe iniziare la fase congressuale preannunciata da Enrico Letta. Di alleanze, del ruolo delle correnti e del futuro del partito, ne abbiamo parlato in questa intervista.

Onorevole, partiamo dalle regioni a cui, politicamente, è più legato: Puglia, per questioni anagrafiche e perché la sua carriera è iniziata lì, e Campania, dove ricopre ruolo di commissario regionale del Pd. Siete arrivati terzi, galleggiando sulla soglia del 16%, inferiore di tre punti rispetto alla media nazionale. In questi territori il Movimento 5 stelle ha preso quasi il doppio dei vostri voti. Dove avete sbagliato?

«Il M5s forse ha preso il doppio dei nostri voti, ma ha preso la metà dei voti di quattro anni fa. Noi abbiamo preso gli stessi voti di quattro anni fa. Ovviamente in Puglia e in Campania abbiamo subito come nel resto dell’Italia l’ennesima scissione. Nel 2022 una delle forze politiche che si è presentata al voto è costituita da nostri ex compagni di partito. Ciò avvenne anche nel 2018, con Leu. Ecco, va detto che nonostante la scissione fatta da Renzi e Calenda, il Pd ha retto. Se mi si chiede se sono contento di questo risultato la risposta è “no”, perché abbiamo perso le elezioni e mi pare che ci sia un problema ancora più serio nel Paese: una divisione netta tra Nord e Sud che deve far riflettere tutti. C’è una frattura evidente del Paese, a metà, che è figlia delle questioni sociali che vengono poste all’attenzione della politica.

Devo dire che mi ferisce, da meridionale, ancora di più il fatto che uno dei partiti al governo, Forza Italia, abbia fatto incetta di voti al Sud facendo eleggere gente del Nord. Mi riferisco al consenso di Forza Italia in Calabria, in Campania. Risultati inaspettati rispetto alla media nazionale del partito. Hanno fatto eleggere gente che farà gli interessi non del territorio, ma del circuito ristretto di Berlusconi al Nord. E poi c’è il tema del Terzo polo, in particolar modo Azione, che prende voti importanti in alcune regioni del Nord, ma è molto debole al Sud. Il centrodestra in gran parte del Sud è minoranza, minoranza assoluta è il caso di dire, però governerà il Paese. Se chi ha fatto saltare l’alleanza con il Pd aveva come obiettivo quello di far entrare Meloni a Palazzo Chigi, c’è riuscito».

Si intravede un’accusa al Terzo polo, ma ritiene invece il M5s affidabile dopo che ha innescato la crisi che ha portato alla caduta del governo Draghi, schierandosi contro il Pd e Roberto Gualtieri sul termovalorizzatore di Roma?

«Io non assolvo nessuno. Chi non ha fatto prevalere il senso di responsabilità di un’Italia fortemente ancorata all’Europa che si poteva rappresentare in una coalizione vasta, così come facciamo quotidianamente, ad esempio nel Lazio, chi ha fatto saltare il banco per raccattare qualche punto in più percentuale per avere maggior controllo dei gruppi parlamentari, e mi riferisco sia al Terzo Polo che al M5s, è evidente che ha spianato la strada a Meloni».

Avere come esponenti regionali due governatori della popolarità di Michele Emiliano e Vincenzo De Luca si è rilevato ininfluente per il voto delle politiche. È crollata anche la fiducia in loro?

«Per me è molto semplice e chiaro: senza loro due saremmo all’opposizione anche nel governo di Puglia e Campania. Il Pd, se guardiamo i numeri delle regionali, prende gli stessi voti delle politiche. Se però poi facciamo altre alleanze alle politiche non è che possiamo scaricare la colpa su Emiliano e De Luca che quando ci sono le regionali vincono. La differenza la fanno le alleanze fatte su quei territori che ci consentono di far cambiare idea a chi di solito vota dall’altra parte. Voglio ricordare a tutti quelli che partecipano ai salotti elitari – e non sono contro l’élite in assoluto, ma contro questa specie italiana che è diventata autoreferenziale -, che non possono permettersi di proporre lo scioglimento della seconda forza politica del Paese senza essere mai entrati in una sezione. Senza mai aver sentito l’odore del fango da spalare, senza sapere che nel Paese il Pd può contare su 4.500 circoli.

Venite a vedere il lavoro che si fa sui territori. Non si può non riconoscere che la Puglia e molte aree della Campania sono cambiate negli ultimi decenni, quando ha governato il Pd che ha saputo vincere le elezioni regionali perché ha catalizzato una coalizione vasta. Sfido chiunque a dire che la Puglia non è cambiata nel terzo millennio, che sulla cultura, sul turismo, sull’innovazione tecnologica, sui distretti industriali, prima con Vendola e poi con Emiliano, è diventata tutt’altro Sud. Così come – anche se in un’altra fase storica – hanno fatto Bassolino in Campania e poi De Luca. Lo devo dire perché ci sono alcuni pezzi di élite che fanno i turisti e dicono “mai con alcune civiche”. Ma se non si convince chi vota a destra a votare per noi, le elezioni non si vincono. E il Pd ha dimostrato di poter vincere quando allarga la sua coalizione, non quando la restringe con i veti».

Domani interverrà in direzione nazionale? Qual è la sua proposta per il futuro del Pd?

«Certo, interverrò con convinzione. Spero intervengano tutti. Io penso che ci debba essere un comune denominatore domani in direzione: deve essere bandita l’ipocrisia. Siccome siamo un grande partito che, per nostra fortuna, vive e va sempre oltre le leadership. Siccome il Pd è un partito libero e contendibile, non è un partito di proprietà di qualcuno. Siccome è un partito molto legato ai territori, con i suoi 4.500 circoli e, scherzando, dico che sulla presenza territoriale siamo secondi soltanto a Poste italiane e Carabinieri. Ecco, per tutte queste ragioni, chiedo a chi parlerà domani, con disinvoltura e discernimento, di avere rispetto di quei 4.500 circoli che vengono aperti e chiusi ogni giorno da volontari. Mi si dirà che la maggior parte di loro sono pensionati. Forse, ma ci sono anche tanti giovani. E fosse anche vero, sono pensionati che hanno una certa idea Italia e va rispettata».

Primarie sì o primarie no?

«Io sono sempre stato a favore delle primarie e non cambio idea certamente oggi. Però il tema non è l’utilizzo o meno di uno strumento. Ma che partito siamo in questo tornante della storia? Abbiamo il dovere di dirlo con chiarezza e senza mezze misure. Soltanto dopo saranno utilizzati gli strumenti che abbiamo nel dna e, dopo ancora, inevitabilmente verrà il nodo delle alleanze. Sapendo che la destra, in Italia, è oggi maggioranza parlamentare perché gli altri partiti che condividono una visione alternativa non hanno avuto il coraggio e la forza di allearsi, nonostante siano alleati in molte regioni e comuni. Si deve discutere del nodo alleanze durante il percorso congressuale, ma non prima di aver individuato identità e profilo del partito.

Su certi temi come l’ambiente non possiamo essere quelli della decarbonizzazione e del carbone. Ogni tanto ho la sensazione che qualcuno punti al carbone perché “c’è la crisi” e il giorno dopo si inseguono i figli dei fiori. Quante cavolate che ho sentito negli ultimi mesi di propaganda su questi temi. Come quella del Terzo polo che si definiva “il partito dei pragmatici”.  La nascita di un partito dei pragmatici, come se ci fosse dall’altro lato il partito dei teorici. “Noi siamo i pragmatici”, diceva Calenda. E dall’altra parte, contrapposti, ci sono i poeti?».

Crede che il rinnovamento debba partire anche dalla classe dirigente? In questa fase pre-congressuale stanno già emergendo le direzioni date da Bettini, Orlando, Zingaretti, da un lato, e di Base riformista dall’altro.

«Ma questo fa parte della discussione. Poi, se penso alla classe dirigente di quando è nato l’Ulivo, oggi non c’è più nessuno di quel gruppo lì. Invece c’erano già e ci sono ancora i soliti Gasparri, Berlusconi e La Russa. Se penso a quando è nato il Pd, nel 2007, oggi ci saranno due, tre persone del gruppo dirigente di allora. Se penso al Pd di Renzi, stessa cosa. Capisco che va di moda dire che il Pd non cambia mai, ma io credo che il Pd oltre ad aver cambiato quasi più segretari che l’Italia presidenti del Consiglio, credo che abbia cambiato anche quasi tutti i dirigenti. Non ci si può appigliare a tre, quattro persone, altrimenti sembra una caccia alle streghe. Certo che ci saranno quei pochi che sopravvivono ai mutamenti, ma a fronte di centinaia di dirigenti che sono cambiati. Davvero, se penso ai momenti storici dirimenti, ’96 nascita Ulivo, 2007 nascita Pd, 2014 governo Renzi, i protagonisti di quelle stagioni non ci sono più».

La coalizione larga che lei auspica che estremi deve avere, dunque?

«Intanto io voglio un Pd netto sui temi – lavoro, ambiente, diritti ed europeismo – che hanno consentito a Zingaretti e Letta poi di tirar fuori dalle secche il Pd. Noi abbiamo vinto le regionali del 2020, le amministrative del 2021 e quelle delle 2022, prima di perdere le politiche. Il comune denominatore di regionali e amministrative – a giugno abbiamo strappato al centrodestra, ad esempio, le roccaforti di Verona e Catanzaro – è che avevamo una coalizione larga che non abbiamo avuto alle politiche. Poi però i nostri alleati hanno voluto frantumare l’alleanza di progressisti e democratici. Chi sottovaluta che la politica, oltre posizionamento, principi, valori, è anche alleanze, o è un incosciente o è in malafede. Il problema sono anche e in buona parte le alleanze, altrimenti le perdi le elezioni».

Il problema a questo punto è che il M5s e il Terzo polo non sembrano intenzionati a parlarsi.

«Mi pare evidente che in questo momento loro non stanno pensando al Paese, ma alle loro famiglie. E con famiglie intendo gruppi di interesse, di potere. Stanno pensando a loro, altrimenti si sarebbero sforzati di evitare che la destra vincesse le elezioni. La beffa maggiore di questo passaggio politico è che il centrodestra è maggioranza in parlamento, ma minoranza chiara nel Paese. Mi auguro che Meloni ne tenga conto perché stiamo entrando in una fase storica molto delicata, condizionata dalle disuguaglianze prodotte dalla crisi pandemica globale, le crisi climatiche sono sotto gli occhi di tutti, così come gli interventi demografici, le nuove forme di lavoro: tutti temi che stanno a cuore particolarmente ai giovani. Affrontare questa fase storica governando il Paese a colpi di maggioranza che c’è in parlamento ma che non riflette quella del Paese, io penso che sia pericoloso. Auguri di buon lavoro, Giorgia Meloni: noi vigileremo in parlamento dall’opposizione».

Nel nuovo pd, che ruolo vede per le correnti?

«Le correnti nei partiti, diciamo, tradizionali erano ricchezza culturale, alimentavano il dibattito, anche mettendo insieme posizioni diverse nello stesso perimetro. Negli ultimi 20 anni, le correnti si sono trasformate in un arruolamento di militanti che hanno pensato che aderire alle correnti fosse il modo migliore per fare carriera. Il risultato si è visto, perché mi pare evidente che le correnti siano state il freno allo sviluppo culturale del partito. È prevalsa la militanza rispetto alla discussione. Perché lo dico? Perché nei momenti più importanti ha vinto il silenzio. Mi riferisco a quando abbiamo voltato le spalle ad alcuni problemi sociali che andavano affrontati seriamente, quando abbiamo detto che la concertazione non era più un valore non mi pare che le correnti abbiano reagito. Quando abbiamo fatto questo schifo di legge elettorale non mi pare che ci sia stata una discussione tra le correnti.

La lista delle cose sulle quali si sarebbe dovuto fare un dibattito culturale è lunga. Ma il dibattito culturale non ha prevalso rispetto al dibattito sulla militanza, e il risultato è ciò che vediamo oggi. Mi auguro che in questo congresso, visto che il Pd è davvero un partito contendibile, non ci sia bisogno di utilizzare una corrente per partecipare. Lo facciano liberamente tutti. E mi auguro che le correnti, quelle che decidono di mantenere l’esperienza aggregativa, riscoprano il gusto e il piacere del dibattito culturale. Ah, aggiungo: il tema delle correnti è legato alla forma del partito e ci sono molte forme in discussione. Se si desse più potere ai circoli, diventerebbe tutto più vivace anche sul piano culturale».

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