Emanuela Orlandi e il Vaticano: il doc su Netfix e i misteri sulla ragazza sparita nel nulla
Si chiama “Vatican Girl” il documentario sulla scomparsa di Emanuela Orlandi prodotto da Raw che Netflix manderà in onda a partire dal 20 ottobre in quattro puntate. Scritto e diretto da Mark Lewis, vedrà la partecipazione di Pietro Orlandi, fratello della cittadina vaticana, e del giornalista investigativo Andrea Purgatori. Chissà se la verità sulla “ragazza con la fascetta” che Roma ha imparato a conoscere attraverso il manifesto che tappezzò le strade della città a partire dal giugno 1983 arriverà dalla tv. Di certo nella storia giudiziaria del caso di strane storie se ne sono sentite tante. Le indagini della magistratura ne hanno messo in luce alcune. Altre sopravvivono alle sentenze dei giudici. Ecco quindi una rassegna delle più importanti tesi sulla cittadina vaticana e sul suo destino. Corredata però anche delle confutazioni delle indagini. E anche dei tanti errori di valutazione commessi negli anni da chi indagava.
La scomparsa
È il 22 giugno del 1983. Emanuela esce, in ritardo, da Porta Sant’Anna per andare a seguire una lezione alla scuola di musica Ludovico da Victoria in piazza Sant’Apollinare, a due passi da piazza Navona e dal Senato della Repubblica. Arriva quando la lezione è già cominciata. Ma prima di uscire verso le 19 (o prima di entrare a lezione, secondo altre fonti) telefona a casa. Chiede dei genitori che però non sono in casa e allora racconta quello che le è appena successo alla sorella Federica: un tizio l’ha fermata per strada e le ha promesso una somma altissima (375mila lire dell’epoca) per distribuire prodotti Avon dalle Sorelle Fontana al Salone Borromini.
Federica racconta che l’uomo ha detto alla sorella che si presenterà all’uscita per avere una risposta. E che lei consiglia subito a Emanuela di lasciare perdere perché la storia puzza e un compenso del genere è troppo alto per non essere sospetto. All’uscita di scuola, come racconterà l’altra sorella Natalina nel verbale che raccoglie la prima denuncia di scomparsa, Emanuela si intrattiene con un’alunna della scuola che si chiama Raffaella Monzi. Quando arriva il bus non sale perché, dice, aspetterà l’uomo della Avon.
Secondo un’altra versione con lei c’è anche Maria Grazia Casini. Emanuela aspetta l’autobus 70 fino alle 19,20 ma poi non ci sale. Rimane lì con un’altra ragazza che si chiama Laura Casagrande. Con lei cammina su Corso Rinascimento in direzione di Corso Vittorio Emanuele. La compagna di scuola si volta indietro e nota che Emanuela si è attardata indietro. A un certo punto non la vede più. Da quel momento Emanuela scompare. Prima, secondo il racconto di alcuni testimoni, era successo qualcos’altro.
Su sollecitazione dei parenti e degli amici che ci avevano parlato prima, il vigile urbano Alfredo Sambuco si presenta alla polizia per dire che ha visto una ragazza molto somigliante a Emanuela che parlava con un uomo di circa 35 anni che guidava una Bmw di un colore particolare: verde tundra. Lui è in servizio a Palazzo Madama e sostiene che l’uomo abbia una borsa con la scritta Avon. Anche il poliziotto Bruno Bosco conferma: pure lui riesce a vedere la borsa con la scritta Avon. E per entrambi vale la stessa domanda: come è possibile, a metri di distanza, riuscire a leggere la scritta su una borsetta?
Le prime indagini e la borsetta Avon
Le prime indagini le svolge la magistrata Margherita Gerunda. Che comincia a seguire piste “nere”: violenza sessuale e omicidio. Chiede di dragare il Tevere per trovare il corpo. E, come dirà successivamente non si è mai occupata della cosiddetta pista Avon «perché nessuno me ne parlò». Aggiungendo anche altro: «Non credo inoltre che quel giorno Emanuela Orlandi sia andata alla scuola di musica passando per corso del Rinascimento, dove si usa credere che sia stata vista da un vigile e da un poliziotto. Ho maturato la convinzione che i testimoni si siano prestati a dire o a confermare cose che permettevano loro di andare sui giornali, dare interviste, insomma avere il loro piccolo momento di fama se non di gloria». Si appura anche che la ditta Avon non fornisce borsette (o tascapane) griffate alle sue commerciali. E, ovviamente, che nessuna di queste ha a disposizione una Bmw.
Nel frattempo a casa Orlandi cominciano ad arrivare strane telefonate. Quelle dei mitomani. E le prime due significative. Il primo, che chiama tre volte, dice di chiamarsi “Pierluigi”. È relativamente giovane. Dice che Emanuela è viva, sta bene, chiede di non preoccuparsi. Aggiunge un dettaglio: ha intenzione di tornare a casa a settembre perché vuole suonare il flauto al matrimonio della sorella. Non può saperlo, forse, ma è tutto vero.
Perché proprio Natalina aveva programmato le sue nozze per quella data. Due giorni dopo chiama “Mario”. Anche se le intercettazioni del telefono di casa Orlandi inizieranno soltanto qualche giorno dopo, è rimasta una registrazione della conversazione. All’altro capo del telefono non c’è Ercole Orlandi ma lo zio di Emanuela Mario Meneguzzi. “Mario” dice di voler difendere un suo amico che è rappresentante di prodotti Avon. Entrambi sembrano voler rassicurare la famiglia: la ragazzina sta bene, presto tornerà a casa, non vi preoccupate.
Intrigo internazionale: l’Amerikano e il Turkesh
Intanto però succede qualcosa che cambia tutto il corso della storia. «Desidero esprimere la viva partecipazione con cui sono vicino alla famiglia Orlandi, la quale è nell’afflizione per la figlia Emanuela, di 15 anni […] non perdendo la speranza nel senso di umanità di chi abbia responsabilità in questo caso», dice dal balcone di piazza San Pietro il 3 luglio Papa Giovanni Paolo II. Karol Wojtyla non parla di rapimento. Eppure da quel momento nascerà la pista dell’Intrigo Internazionale. Ovvero uno dei più clamorosi depistaggi della storia italiana. Due giorni dopo l’appello del Papa entra in scena l’Amerikano. Chiama la sala stampa del Vaticano, afferma di avere in ostaggio la ragazza, dice che ulteriori informazioni sulla vicenda sono state fornite da Pierluigi e Mario, che definisce “elementi” della sua organizzazione.
E sollecita l’intervento del Pontefice per far rilasciare entro il 20 luglio Mehmet Alì Agça. Si tratta del cittadino turco che ha sparato al Papa il 31 maggio di due anni prima. Da un anno – e questo dettaglio è decisivo – ha cominciato a parlare di una “pista bulgara” incolpando i servizi segreti del paese comunista dell’organizzazione dell’attentato. Il giorno stesso l’Amerikano (soprannominato così per l’accento anglosassone, che però non tutti riconoscono) chiama a casa Orlandi. E, parlando di nuovo con Meneguzzi, fa ascoltare un nastro registrato che a suo dire riproducono la voce di Emanuela.
Il 6 luglio un’altra persona fa ritrovare ai giornalisti dell‘Ansa la fotocopia dell’iscrizione alla scuola di musica della ragazza, una foto, la ricevuta di un versamento e una frase di saluto autografa. Il gioco va avanti per mesi. Ad agosto si presenta in scena il Fronte di Liberazione Turco Anticristiano Turkesh. Sollecita la liberazione di Agça, fornisce alcuni particolari sulla vita di Emanuela come quello dei sei nei sulla schiena (confermati da Meneguzzi), chiede un appello al Papa per la liberazione. A settembre compare un’altra sigla: Phoenix.
La prova mancante
Inutile riepilogare qui le frasi deliranti contenute nei “Komunicati” (che avevano anche un numero d’ordine) o segnalare gli elementi di comicità involontaria nelle “rivelazioni”: il fronte Turkesh infatti afferma che il cantante preferito di Emanuela è Gino Paoli. La fazione dell’Amerikano invece punta su Claudio Baglioni. Gli elementi di certezza sono pochi. Uno è che un mitomane si attribuì la redazione di alcuni dei Komunicati firmati Turkesh. Altri, come vedremo successivamente, sono fortemente sospettati di averne scritti altri. Un altro elemento, ancora più significativo, è che in tutto quello che producono le varie fazioni in lotta per accreditarsi presso i media come i veri sequestratori di Orlandi manca una cosa fondamentale. Nessuno riesce a fornire una sola prova dell’esistenza in vita della ragazza.
Eppure non sarebbe stato difficile farlo. I criminali che si riunirono attorno al nucleo iniziale della Banda della Magliana cominciarono la loro carriera criminale con il rapimento del duca Massimiliano Grazioli Lante Della Rovere. E a un certo punto fornirono alla famiglia la classica evidenza: una foto con un giornale. Come fecero le Brigate Rosse con Aldo Moro. Ma con un dettaglio in più: all’epoca il duca era già morto, perché aveva visto in viso uno dei suoi carcerieri. Insomma, avendo nella propria disponibilità Emanuela Orlandi, viva o morta, sarebbe stato facile trovare il modo di fornire una prova fotografica inoppugnabile. Nessuno lo fa. Infine, l’ultimo elemento è che Agça decide di ammutolirsi sulla faccenda della “pista bulgara”. E il relativo processo finirà in nulla.
La sentenza Rando e la Stasi
Il 30 giugno 1997 con una sentenza che farà il punto sulle indagini degli anni precedenti la giudice istruttrice Adele Rando proscioglie quattro cittadini altoatesini e il turco Oral Celik dall’accusa di sequestro di persona a fini di terrorismo nella persona di Emanuela Orlandi. Il 26 giugno 2008 però entra in scena l’ ex colonnello Guenter Bohnsack, capo della Abteilung X, la Decima Divisione, addetta alla disinformazione nella Stasi, i servizi di sicurezza della Germania Est. Che candidamente confessa: «Davvero quella ragazza (Emanuela, ndr) non è mai stata trovata? Al nostro Dipartimento ci eravamo occupati di quel caso solo in modo tangenziale. Eravamo impegnati nell’ “Operation Papst”. La mia sezione doveva aiutare i bulgari a fronteggiare e respingere le accuse che li volevano coinvolti nell’attentato a piazza San Pietro».
Chi lo aveva chiesto? «Naturalmente Mosca. Così ci mettemmo d’accordo con il Kgb per cercare di depistare le accuse. Producemmo una serie di carte per sviare l’ attenzione dai bulgari». Con la Orlandi fecero «una procedura simile, ma concentrando l’ attenzione sui Lupi Grigi. Ci mettemmo a tavolino, e scrivemmo alcune lettere a Roma». Le inviarono «a diversi enti. Al ministero della Giustizia. Oppure alle agenzie di stampa, mi ricordo l’Ansa. O ai magistrati che si occupavano del caso. Il senso era questo. Chiedevamo la liberazione di Ali Agça, l’ attentatore del Papa. E uno scambio con la ragazza. Volevamo far credere di essere dei nazionalisti turchi, interessati alla sorte del loro compagno. Ma lo scopo vero era naturalmente quello di stornare l’attenzione dalla Bulgaria». La pista turca sul caso Orlandi, quindi, era un’ invenzione? «Era stata creata ad arte. Così ci era stato chiesto di fare».
Il caso Bonarelli e l’altra Emanuela
In quegli anni Raoul Bonarelli è un lavoratore del Vaticano che di mestiere fa il Sovrastante presso l’Ufficio Centrale di Vigilanza della Santa Sede. Nel dicembre 1985 la signora Maria Vittoria Arzeton lo incontra durante una visita del Papa a una parrocchia. E gli pare di riconoscere in lui la stessa persona con cui la figlia Mirella Gregori e la sua amica Sonia De Vito si intrattenevano presso il bar dei genitori di quest’ultima in via Nomentana. Bonarelli abita in via Alessandria, ovvero proprio da quelle parti. Mirella scompare a Roma il 7 maggio del 1983. Ascolta al citofono una persona che la invita a Porta Pia e che chiama come un suo vecchio compagno di scuola (Alessandro, che si trovava da tutt’altra parte in quel momento). Esce di casa promettendo di tornare mezz’ora dopo. E sparisce nel nulla.
Nel 1993 Arzeton viene messa a confronto con Bonarelli. Ma, a sorpresa, dice di non essere più sicuro che si tratti della stessa persona adulta che frequentava la figlia. Nel frattempo però succede qualcosa di strano. Prima di convocarlo davanti all’autorità giudiziaria la polizia mette sotto controllo il telefono di Bonarelli. Il quale, il giorno prima dell’audizione, riceve una telefonata dal suo superiore. Che gli dice: «Che sai di Orlandi? Niente. Che ne sappiamo noi? Non dirlo che è andata alla Segreteria di Stato». I pubblici ministeri chiedono l’audizione per rogatoria di Cibin e di un monsignore. Senza esito, anche se i due replicheranno ai loro difensori. I magistrati iscrivono Bonarelli nel registro degli indagati per il reato di sequestro di persona a scopo di estorsione e favoreggiamento personale. La sua posizione viene archiviata nel febbraio 2009.
Il codice 158
Il 5 luglio 1983, durante la sua prima telefonata alla sala stampa del Vaticano, lo sconosciuto che verrà soprannominato “L’Amerikano” chiede una linea diretta con la segreteria di Stato del cardinale Agostino Casaroli. E vuole usare il codice 158 per parlare direttamente con lui. La circostanza è importante perché secondo alcuni quel codice dimostrava che si trattava proprio della persona che ha mandato le prime rivendicazioni sul rapimento di Orlandi e non era a conoscenza dell’opinione pubblica. Altri dicono invece che il dettaglio era conosciuto dall’opinione pubblica. Il 27 ottobre 1997 durante la trasmissione “Telefono Giallo” di Corrado Augias uno sconosciuto con accento anglosassone chiede di parlare con l’avvocato Gennaro Egidio, storico legale della famiglia Orlandi messo loro a disposizione dai servizi segreti italiani. Ma soprattutto l’uomo nomina proprio il codice 158.
L’indagine successiva, che risale al 2002, scopre che dall’altra parte del filo c’è Roberto Magnani. Che ammette di aver telefonato e di aver fornito false generalità al centralino della trasmissione. Ma non spiega perché è a conoscenza del codice. Intanto una perizia sulle telefonate dell’americano e un confronto con quella arrivata in tv conclude per l’assimilabilità delle voci (ma le perizie foniche non forniscono certezze sull’identità, come vedremo anche successivamente). Ma, incredibilmente, subito dopo nascono dubbi sull’orario della telefonata tra il verbale dei carabinieri e quello della Sip. Le nuove indagini non permettono di chiarire il punto. E così i magistrati non possono essere certi che la telefonata di cui si parla sia quella fatta da Magnani, anche se lui ha ammesso di aver telefonato. I nastri contenenti la telefonata sono stati nel frattempo smagnetizzati perché considerati non utili alle indagini. E tutto si risolve in un nulla di fatto.
La Banda della Magliana
Il giornalista Andrea Purgatori ha raccontato che all’epoca in cui seguiva il caso Orlandi scrisse sul Corriere della Sera di una trattativa tra la ‘ndrangheta – che aveva perso 140 miliardi di lire nel crac dell’Ambrosiano – e il Vaticano per recuperarli. La ‘ndrangheta, secondo questa versione, mise in pista quello che viene definito come l’uomo più importante della criminalità a Roma, ovvero Enrico De Pedis. Che si fa portare dove è nascosto il corpo di Emanuela, prende con sé gli effetti personali, e li utilizza per mandare i famosi messaggi e per accreditarsi come il rapitore. Allo scopo di ricattare il Vaticano. Ma, secondo questa ipotesi, senza alcuna connessione con la scomparsa di Orlandi. Che sarebbe invece morta durante un tentativo di stupro da parte di due balordi spacciatori incontrati a piazza Navona. Purgatori ha raccontato che all’epoca il Vaticano si arrabbiò così tanto per l’articolo che il giornale gli tolse l’incarico di scrivere sul caso.
Il 1 luglio 2005 arriva alla redazione di “Chi l’ha visto?” una telefonata: «Riguardo al fatto di Emanuela Orlandi, per trovare la soluzione del caso andate a vedere chi è sepolto nella cripta della basilica di Sant’Apollinare e del favore che fece Renatino al cardinale Poletti. E chiedete al barista di via Montebello che pure la figlia stava con lei, con l’altra Emanuela… E i genitori di Emanuela sanno tutto. Però siccome siete omertosi, non direte un cazzo come al solito!». In via Montebello si trovava il bar gestito dalla famiglia Gregori. La “Bandaccia” è stata un’organizzazione criminale celebrata in film e fiction nata, secondo alcune tesi, con le figure di Franco Giuseppucci detto “Er Fornaretto”, Maurizio Abbatino detto “Crispino” ed Enrico De Pedis detto “Renatino”.
Un altro nucleo si era formato attorno ad altri protagonisti come Claudio Sicilia, Nicolino Selis e Antonio Mancini. È importante sottolineare prima di proseguire nel racconto che De Pedis, morto nel 1991, non è stato mai condannato per associazione a delinquere in relazione ai fatti della Banda della Magliana. E quando è deceduto (in un agguato organizzato da esponenti della mala romana), a parte qualche peccato di gioventù, la sua fedina penale era sostanzialmente pulita.
Sabrina Minardi
Mancini è uno dei collaboratori di giustizia della Banda. Il 20 febbraio 2006 in un’intervista rilasciata alla trasmissione di Rai 3 sostiene che la voce della chiamata sia quella di un appartenente alla “Bandaccia”. Fa il nome di un certo “Rufetto”, che definisce un killer al servizio di De Pedis. Rufetto sarebbe Libero Giulioli. Una perizia tecnica esclude che sia lui l’autore della telefonata. Il 4 giugno 2008 si presenta davanti al pubblico ministero Sabrina Minardi. Ex moglie del calciatore della Lazio Bruno Giordano, è ricoverata in una casa di cura perché tossicodipendente.
Racconta di aver avuto una relazione sentimentale con De Pedis dal 1982 al 1984. E che un giorno è andata con la sua A112 al Gianicolo con De Pedis, il quale aveva appuntamento con un suo “autista” arrivato con una Bmw di nome Sergio e con una signora che portava con sé una ragazzina di 14 anni che lei riconosce come Emanuela Orlandi. De Pedis la incarica di portare la ragazzina in via delle Mura Aureliane insieme a Sergio. Giunti sul posto, trovano ad aspettarli un uomo vestito da prete al quale consegnano la ragazza.
Minardi chiama in causa altre persone. Dice di aver saputo da una zia di Giordano che la ragazza è prigioniera in una casa dalle parti di Circonvallazione Gianicolense di proprietà di Daniela Mobili. Che però in quel periodo ha un alibi inattaccabile: è in carcere. Poi sostiene che dopo un pranzo a Torvajanica nel ristorante “Pippo l’Abruzzese” De Pedis la fa fermare presso un cantiere edile. Tira fuori due sacchi e li getta in una betoniera. Nei sacchi, afferma Minardi, ci sono Orlandi e Domenico Nicitra, figlio di Salvatore e scomparso invece nel 1993.
Aggiunge che sa di rapporti tra De Pedis e monsignor Paul Marcinkus, morto da due anni. In altri incontri con il Pm e con la polizia giudiziaria aggiunge altri dettagli o corregge le precedenti dichiarazioni. Chiede di accedere a un programma di protezione dei testimoni. Sostiene che nel sacco alla fine non c’era Emanuela Orlandi, che invece viene accompagnata all’aeroporto di Ciampino per “sparire” partendo verso una destinazione ignota. Altre dichiarazioni arrivano nel 2009 e nel 2010.
L’indagine su Marco Sarnataro
Il Sergio di cui parla Minardi di cognome fa Virtù. La procura mette insieme la sua foto e quella di altri personaggi considerati all’epoca vicini a De Pedis e va dagli amici di giovinezza di Emanuela. I quali avevano raccontato all’epoca di aver notato ragazzi più grandi loro in atteggiamenti sospetti e che parevano seguire la comitiva. Uno di queste persone, secondo il racconto degli amici di Emanuela, una volta toccò passando con un’automobile proprio il braccio della ragazza, indicandola alla persona alla guida. Alcuni di loro riconoscono nelle foto Marco Sarnataro. Altri identificano proprio Sergio Virtù, altri ancora Angelo Cassani. Marco Sarnataro è morto di Aids nel 2007. La procura convoca il padre Salvatore. Il quale rivela che durante un periodo di detenzione comune a Regina Coeli il figlio gli ha confessato di aver preso parte al sequestro Orlandi.
Salvatore Sarnataro sostiene che il figlio abbia agito su ordine di De Pedis. Marco ha “prelevato” Emanuela «con una Bmw in piazza Risorgimento senza alcun tipo di violenza» (piazza, e non corso: il dettaglio è importante) e l’ha portata al laghetto dell’Eur dove è stata presa in consegna da Sergio Virtù. Con lui hanno agito “Ciletto” e “Giggetto” ed è stato ricompensato con una moto. I tre, sempre secondo il racconto di Sarnataro padre, avrebbero anche ucciso un certo Roberto Faina perché autore di uno scippo nei confronti della fidanzata di Ciletto.
Ciletto viene identificato in Angelo Cassani, Giggetto come Gianfranco Cerboni. Sarnataro padre coinvolge anche Giorgio Paradisi, che sarebbe il tramite tra De Pedis e i tre. E dice che la cognata di Cassani faceva la presentatrice per la Avon. Ma il primo riscontro è negativo: nessuna delle compagne del fratello di Cassani si trova nell’elenco acquisito all’epoca dei fatti. Nel marzo 2010 Virtù, Cassani e Cerboni vengono iscritti nel registro degli indagati come sequestratori di Emanuela Orlandi.
Le telefonate e le intercettazioni
A carico di Virtù c’è anche una telefonata del 20 dicembre 2009. L’uomo parla con Ildico Maria Kiss, ungherese, e lui le dice: «Purtroppo quando ero giovane stavo in un ambiente un po’ particolare, eravamo tutti scapestrati. Però mica che me pento de quello che ho fatto… te dico la verità: l’ho fatto per i soldi e non me ne frega niente de quello che ho fatto». Interrogato, Virtù ammette di aver frequentato quel bar di via Chiabrera indicato nelle indagini come il luogo in cui la Banda si riuniva per prendere le decisioni importanti. Ammette di aver conosciuto Claudio Sicilia, uno degli esponenti storici della mala romana. Ma nega di aver mai conosciuto De Pedis. Dice che a Kiss ha detto quelle cose perché lei era gelosa del fatto che lui fosse tornato con la moglie. Poi nega di essere lui la persona al telefono con lei nell’intercettazione.
Angelo Cerboni invece si presenta davanti ai magistrati per sostenere che il suo soprannome non è mai stato “Ciletto”, bensì “Er Chillerino”. Gli inquirenti gli mostrano una lettera del dicembre 1978 inviata da lui e la cui firma finale era “Ciletto Er Chillerino”. A quel punto Cerboni sostiene che la lettera fosse firmata da due persone, ovvero lui (Er Chillerino) e quel Ciletto. I giudici gli chiedono perché allora la lettera sia scritta tutta al singolare e la grafia, anche della firma, sia la stessa. Lui sostiene di aver scritto per entrambi. E quando gli fanno notare che allora dovrebbe sapere chi è Ciletto, visto che ha firmato una lettera insieme a lui, risponde di non ricordare. In una intercettazione ambientale tra i due, che ai pm hanno detto di non conoscere Virtù, Cerboni per tranquillizzare Cassani gli dice: «Pensa a Sergio poraccio! Quello l’hanno bevuto».
Le consulenze foniche
I magistrati ordinano delle consulenze tecniche foniche sulle tante telefonate registrate in questi anni sul caso Orlandi. La prima riguarda la telefonata del 2005 a “Chi l’ha visto?” con quella del 1983 in cui un sedicente “Mario” difendeva quel “Pierluigi” che aveva chiamato un paio di giorni prima. Il Ctu concludeva per un “alto grado di similitudine” tra le due voci. A quel punto scattano i confronti con le voci degli uomini che ruotavano attorno alla Banda in quegli anni.
Per la prima, quella del 1983, la voce rappresenta un alto grado di similitudine con quella di Giuseppe De Tomasi. La seconda, quella dell’anonimo sulla tomba di De Pedis, ha un indice di similitudine ancora più alto con la voce di suo figlio, Carlo Alberto De Tomasi. Giuseppe, che a Roma viene chiamato con il nome di Sergione e con i soprannomi di “Chiattone” e “Ciccione”, vive a Testaccio dove ha un negozio e tante indagini lo collegano a De Pedis.
Un paio d’anni dopo verrà arrestato perché indagando su di lui e sul figlio per il caso Orlandi i magistrati scoprono un giro di usura e di estorsioni. Tra i “clienti” c’è anche Marco Baldini. Nel 2012 diventa famoso in tutta Italia telefonando in diretta a “Chi l’ha visto?” e minacciando la conduttrice Federica Sciarelli. «Vengo con i carri armati (in studio, ndr)», esclama dopo aver negato di essere Mario. Le perizie sulla voce di De Pedis e Marcinkus per le telefonate degli anni Ottanta danno esito negativo.
Per la telefonata del 5 luglio 1983 in cui si sentiva quella che l’Amerikano definiva la voce di Emanuela, la perizia stabilisce un alto grado di similitudine con quella di Sabrina Minardi. Che non si era mai autoaccusata di essere l’autrice di quella registrazione nelle migliaia di pagine di dichiarazioni rese ai pm e alla polizia giudiziaria. Le perizie foniche però non sono il test del Dna: non forniscono certezze né prove decisive.
Don Pietro Vergari ed Enrico De Pedis
I pm indagano sulla sepoltura di De Pedis nella basilica di Sant’Apollinare, che si trova di fianco alla scuola di musica frequentata da Emanuela. La circostanza, comparsa per la prima volta in un articolo del Messaggero negli anni Novanta, viene spiegata con l’amicizia tra De Pedis e don Piero Vergari, rettore della basilica. I due si sono conosciuti quando Renatino era in carcere a Regina Coeli perché Vergari faceva volontariato con i detenuti. Vergari è il prete che officia il matrimonio tra Renatino e Carla Di Giovanni.
Secondo i testimoni ha dato l’assenso alla sepoltura, dopo aver chiesto il permesso al cardinale Ugo Poletti, perché gli eredi di De Pedis (tra cui due fratelli che gestiscono ristoranti a Roma) hanno promesso che svolgeranno dei lavori nella cripta fatiscente dove la salma dovrebbe essere ospitata. I parenti di De Pedis dicono che hanno pagato quei lavori 37 milioni di lire in contanti. In un’intercettazione ambientale del 2009 Sergione dice che all’epoca pagarono invece 600 milioni a Poletti per la sepoltura: «Je amo’ preparati spicci», precisa.
Davanti ai magistrati dirà che riferiva cose che aveva saputo da altri. Il pm dispone l’esumazione della salma di De Pedis e anche l’esame dell’ossario che si trova nella cripta. La consulenza successiva accerta che tra le ossa non sono state ritrovati quelle di Emanuela Orlandi o Mirella Gregori.
L’archiviazione
Il pubblico ministero mette per iscritto nella sue conclusioni dell’indagine che «gli elementi emersi hanno trovato alcuni riscontri in ordine al coinvolgimento della Banda della Magliana nella vicenda». La formula va letta con attenzione: la “vicenda” Orlandi è tutto quello che è successo nel caso. Ovvero anche quello che si potrebbe definire il côté informativo. Che, come abbiamo visto nel caso dei Lupi Grigi, aveva scarsa relazione diretta con quello che è davvero successo alla cittadina vaticana. Il giudice per le indagini preliminari Giovanni Giorgianni spiega nell’archiviazione tutto quello che non permette di esercitare l’azione penale perché le accuse non reggerebbero il vaglio dibattimentale. Cominciando dalla supertestimone Minardi. La quale è per sua stessa ammissione tossicodipendente e, soprattutto, cambia dichiarazioni e si contraddice continuamente. Prima dice di aver visto una sola volta Orlandi, che sa che sono stati quelli della Banda ma sostiene di non sapere chi materialmente abbia agito.
Nelle seconde dichiarazioni Minardi parla del presunto disfacimento del cadavere nella betoniera di Torvajanica. Ma interrompe le dichiarazioni per chiedere a chi la sta ascoltando «un aiuto al fine di ottenere una casa dal comune». Dice che una donna ha guidato la macchina che trasportava Orlandi e ne fa il nome. Quella persona non ha la patente e non sa guidare. Chiede alla squadra mobile di Roma di essere inserita in un programma di protezione di testimoni.
Accusa il solo Cassani, oltre a Virtù, all’inizio. Poi esclude che Cassani sia Ciletto, salvo confermarlo qualche mese dopo. Racconta che la betoniera non c’entra nulla e che il cadavere di Orlandi è stato gettato in mare. In un’intercettazione risponde alla giornalista che sta parlando con lei di non sapere chi sia Gianfranco Cerboni (“Gigetto”). Quando la sorella le chiede se è sicura del ruolo di Virtù nel presunto sequestro, risponde: «Eh sì, è stato l’autore materiale… penso… non lo so!».
L’attendibilità di Minardi e Sarnataro
A dicembre del 2009 viene portata a Torvajanica per provare a riconoscere il luogo del seppellimento della ragazza. In via Zara fa fermare l’auto della polizia e dice di riconoscere quei luoghi. La polizia le fa notare che quei palazzi nel 1983 erano già stati edificati. A quel punto chiede di essere riaccompagnata in comunità. E la Pg fa anche notare che la via si trova vicino a un’altra in cui i genitori di Minardi possedevano un’abitazione.
Il 18 gennaio 2010 un’informativa della polizia giudiziaria segnala che «Sabrina Minardi sta cercando in tutti i modi di ricavare un guadagno dalle sue dichiarazioni fatte ai media in ordine alla scomparsa di Emanuela Orlandi. La donna, infatti, sa che il clamore suscitato dalle notizie che in questo periodo si susseguono in tv e sui giornali potrà essere un’ottima pubblicità per il suo libro». Per quanto riguarda Salvatore Sarnataro, il pm segnala una sua “fragilità” a causa delle condizioni di salute.
Poi segnala che anche lui si è contraddetto riguardo il compenso al figlio per il presunto sequestro, dicendo prima che Marco ha ricevuto una moto e poi smentisce. Soprattutto, non riconosce in foto Sergio Virtù e non sa dire con certezza se durante il sequestro insieme al figlio ci fossero Ciletto, Gigetto o entrambi. In più c’è da segnalare che Sarnataro indica anche un omicidio tra le “imprese” del figlio e dei suoi amici. Per quell’omicidio uno dei due è stato processato e assolto per insufficienza di prove. E la regola del “ne bis in idem” vale anche per lui.
Per quanto riguarda i presunti riconoscimenti delle persone che li pedinavano da parte degli amici di Emanuela, già pare difficile sostenere un riconoscimento a più di 25 anni di distanza. Poi le dichiarazioni sono contraddittorie intrinsecamente perché alcuni parlano di una persona, altri di più persone. Infine, alcuni riconoscono delle persone e altri delle altre, li confondono, riconoscono persone che contraddicono le dichiarazioni degli altri. In definitiva, conclude il Gip, questi elementi non reggerebbero in tribunale.
Marco Accetti e il flauto di Emanuela
Marco Accetti si presenta a piazzale Clodio il 27 marzo del 2013 e viene sentito come persona informata sui fatti riguardo il caso Orlandi. Poi va a “Chi l’ha visto?” per consegnare quello che lui dice essere il flauto di Emanuela. Sostiene di far parte di una “fazione” che vuole influenzare la politica della Santa Sede sul comunismo. E dice che i “finti sequestri” di Emanuela Orlandi e Mirella Gregori, così come il “finto attentato” a Giovanni Paolo II, fanno parte di una serie di azioni intimidatorie all’interno di una lotta in Curia tra fazioni politiche contrapposte (quella del Papa e quella della Segreteria di Stato).
Aggiunge che secondo questo piano Agça avrebbe dovuto solo mostrarsi con la pistola in mano e non sparare. Sulle due ragazze scomparse sostiene che non si trattava di un sequestro ma di un “allontanamento volontario” indotto da un ricatto riguardante i rispettivi padri. Lo scopo era quello di far ritrattare ad Agça la pista bulgara.
Accetti menziona anche l’omicidio di Caterina “Catty” Skerl attribuendolo alla fazione avversa. Nel frattempo arrivano al bar della madre di Mirella e a Raffaella Monzi due lettere con negativi fotografici, un foglio con frasi in rima, ritagli di giornali, stoffe e altri materiali. Accetti è stato condannato per omicidio colposo in base alla morte del 12enne José Garramon, che ha investito in viale Castel Porziano nel dicembre 1983. Il ragazzino era uscito da casa sua all’Eur per recarsi dal barbiere, dal quale era arrivato dopo 45 minuti (un tempo esagerato per la distanza tra i due luoghi). Poi era sparito quando viene trovato morto sul ciglio della strada della pineta di Ostia.
Nel 1997 è stato denunciato da una fonte anonima come responsabile dell’omicidio di un giovane di etnia rom chiamato Bruno Romano. La sua ex moglie nel corso di una lite al telefono (intercettata) lo minacciava di parlare di Emanuela Orlandi e di quello che lui «intendeva fare». Nel 1999 si era presentato a una gara di sosia di Roberto Benigni con il nome di Ali (come Agça) Estermann (come Alois, una guardia svizzera uccisa in Vaticano nel 1998 insieme alla moglie dal giovane Gendarme Cédric Tornay, con il quale secondo le spiegazioni ufficiali – mai accettate dalla famiglia di Cédric – non era in buoni rapporti).
I riscontri
Il caso di Accetti ha avuto una buona fortuna nella pubblicistica contemporanea. È andata meno bene a piazzale Clodio. Durante i riscontri i magistrati scoprono che in famiglia Accetti è considerato ossessionato dal caso Orlandi, tanto da collezionare articoli di giornale ma anche «sparate» e «farneticazioni: si inventa le cose più strane». Sul flauto non vengono rinvenute tracce di Dna né impronte digitali. La perizia fonica sulle telefonate dà esito negativo.
Alla fine il Pm conclude che Accetti sa tante cose del caso perché negli anni ha letto carte e pubblicazioni sull’argomento. Interrogato sulla telefonata di Mario del 1983 (della quale sui giornali erano stati riportati solo piccoli brani), Accetti dichiara di essere stato presente quando venne effettuata e prova a spiegarla con i suoi “codici”. Ma non ne conosce né la durata né il contenuto intero. La vicenda, secondo il Pm, è «frutto di un lavoro di sceneggiatura scaturito dallo studio attento di atti e informazioni acquisite negli anni».
Nel 2015 in una conversazione su un gruppo Facebook Pietro Orlandi nota anche che Accetti parla di uno spartito e di alcuni scritti di Emanuela fatto ritrovare dai presunti rapitori nel 1983. Sostiene di aver fatto scrivere “erroneamente” il telefono di una sua amica e quello di casa sua «per mandare un segnale». Orlandi replica: «Questa risposta mi conferma che questa tua nuova rivelazione è un’invenzione basata solo sulla lettura dello spartito reso pubblico».
Poi spiega: «Dici che “il telefono di casa fu scritto errato” lo dici con sicurezza perché il numero esatto è conosciuto e nessuno in questo caso può dirti nulla perché quel numero pubblicato con lo spartito è effettivamente diverso dal numero di casa che troviamo anche sui manifesti ma ti astieni dal dire che anche il numero dell’amica è stato scritto errato perché non sei sicuro che il numero dell’amica sia sbagliato, e non hai la certezza “che anche il numero dell’amica sia sbagliato”, quindi non rischi nel dire che anche quel telefono fu scritto errato. In questa rivelazione hai basato tutto sulla lettura dello spartito pubblicato e questo è l’unico errore, perché nello spartito fatto ritrovare nella busta NON ci sono errori. A buon intenditore…».
Le altre piste
Infine, Orlandi spiega cosa c’è che non va nelle dichiarazioni di Accetti: «Lo spartito sul quale hai fatto la tua rivelazione non corrisponde all’originale. I numeri di telefono sono stati corretti e scritti sbagliati forse perché all’epoca distribuendo la copia ai media non hanno ritenuto opportuno pubblicare i numeri veri come quel 77 fatto diventare 99. Questo dimostra che ti sei basato sulla copia ,diciamo ,contraffatta e non hai mai visto l’originale».
Nel luglio 2022 la procura di Roma scopre che la bara di Katty Skerl è sparita dal cimitero del Verano. Accetti sosteneva che la bara fosse stata traslata da «una finta squadra di addetti cimiteriali, simulando una riesumazione, smurò il fornetto in cui era deposta Skerl, da cui prelevò la bara». Perché? «Per occultare uno degli elementi che poteva far collegare il caso di Skerl a quello Orlandi». A sette anni dalla testimonianza viene aperto un nuovo fascicolo d’indagine.
I magistrati indagano anche su altre piste. Che, negli anni, hanno riguardato persino Moana Pozzi. Un giornalista riferisce che la pornostar gli ha detto prima di morire che Emanuela era oggetto delle attenzioni di un prelato. Un ex criminale di nome Maurizio Giorgetti dice che durante un pranzo nel ristorante “Il Porto” di via San Francesco a Ripa ha sentito Giuseppe De Tomasi parlare con Ciletto del sequestro di una ragazzina per recuperare somme di denaro. Con le intercettazioni disposte successivamente emerge che Giorgetti e la compagna stavano simulando l’arrivo di minacce nei loro confronti da parte di esponenti della Banda.
La coppia versa in condizioni economiche molto difficili. Nel 2011 un uomo che si fa chiamare “Lupo Solitario” sostiene durante una trasmissione tv che Orlandi viva sotto sedativi in un nosocomio a Londra. Luigi Gastrini però indica un ospedale nel quale non ci sono reparti psichiatrici. E quando deve spiegare il movente del rapimento confonde l’Ambrosiano con l’Antonveneta. Successivamente i magistrati scoprono che Gastrini stava cercando di vendere un’intervista a un settimanale. Anche lui versava in difficoltà economiche.
La nota spese del Vaticano
Il 22 settembre del 2017 Fiorenza Sarzanini sul Corriere della Sera ed Emiliano Fittipaldi su Repubblica raccontano di una lettera di cinque pagine, datata marzo 1998 inviata dal cardinale Lorenzo Antonetti, allora capo dell’Apsa (l’Amministrazione del patrimonio della Sede apostolica), ai monsignori Giovanni Battista Re e Jean-Louis Tauran. Il titolo è “Resoconto sommario delle spese sostenute dallo stato città del vaticano per le attività relative alla cittadina emanuela orlandi (roma 14 gennaio1968)“. Si presenta come «un documento di accompagnamento a una serie di fatture e materiali allegati di quasi duecento pagine che comproverebbero alla segreteria di Stato le spese sostenute per Emanuela Orlandi in un arco di tempo che va dal 1983 al 1997». Dice che la Santa Sede ha speso in totale 483 milioni. E promette 197 pagine di allegati con le fatture. Che però non ci sono.
La prima voce riguarda il pagamento di una «fonte investigativa presso Atelier di moda Sorelle Fontana». Parla di spese per lo “spostamento” e indica il pagamento di “rette vitto e alloggio 176 Chapman Road Londra”. Nell’ultima pagina, che arriva al 1997, parla di «Attività generale e trasferimento presso Stato Città del Vaticano, con relativo disbrigo pratiche finali: L. 21.000.000». In fondo alla quinta pagina il mittente aggiunge una postilla. «Il presente documento è presentato in triplice copia, per dovuta conoscenza ad entrambi i destinatari, si rimanda a documentazione allegata sulle modalità di redazione. Non si espleta funzione di protocollazione come da richiesta. APSA è sollevata dalla custodia della documentazione allegata presentata in originale. In fede, Lorenzo Cardinale Antonetti (morto nel 2013, ndr). Stato Città del Vaticano, A.D. 1998, mese di marzo giorno 28».
Intrighi e complotti
Il documento proviene dall’archivio di monsignor Lucio Vallejo Balda, protagonista del caso Vatileaks 2. Andrea Tornielli su La Stampa spiega cosa c’è che non va nel documento: l’intestazione è sbagliata così come il nome di un cardinale citato. «Ma i dubbi veri sono di sostanza. Ammettiamo per un istante che la sostanza dei fatti riferiti sia vera. Per quale motivo nel 1998, con un’inchiesta della magistratura romana ancora in corso, i vertici della Santa Sede coinvolti (in questo caso la Segreteria di Stato) avrebbe chiesto all’APSA un rendiconto completo delle spese dell’operazione, con fatture e pezze d’appoggio senza nomi in codice, aumentando così il numero delle persone informate sui fatti e le possibili fughe di notizie?
E ancora, sempre supponendo che la sostanza sia vera, per quale motivo la Segreteria di Stato avrebbe gestito un’operazione del genere usando l’APSA come ente pagatore, e non utilizzando invece i fondi riservati (Fondo Paolo VI) a sua disposizione per le emergenze?», conclude. Nel suo libro “Gli impostori” Fittipaldi esamina ancora più nel dettaglio le voci del dossier. Segnala anche lui, come aveva già fatto esprimendo dubbi sull’autenticità del documento, tutti i dubbi. Ma nota anche che molte voci avrebbero potuto essere “inventate” meglio, se si trattasse davvero di un falso.
Poi conclude: «Sarebbe importante capire allora chi sono gli impostori che l’hanno architettato, e per quali oscuri motivi la storia di una ragazzina scomparsa nel 1983 venga ancora usata per ricatti e lotte intestine nello stato di Dio. Ma se le impressionanti verosimiglianze del dossier fossero confermate da nuovi elementi probatori, il Vaticano e i suoi alti esponenti avrebbe mentito ancora una volta. E gli impostori sarebbero loro».
La giornalista Maria Giovanna Maglie nel suo libro “Addio, Emanuela” sostiene che Balda, condannato dal Vaticano per aver divulgato documenti segreti, ha in uso una cassetta di sicurezza nella sede del Banco Santander a Madrid «dove sarebbero conservati tutti i documenti trafugati». E che chi ha redatto la lettera poi resa pubblica da Fittipaldi «o non conosce le procedure del Vaticano oppure le conosce talmente bene da essere in grado di modificarle ad arte per far pensare a un falso» allo scopo di «inviare un segnale ben preciso».
La tomba di Emanuela nel cimitero teutonico
Nel marzo 2019 un’istanza della famiglia Orlandi firmata dall’avvocata Laura Sgrò chiede di indagare su una tomba all’interno del Cimitero Teutonico del Vaticano. Secondo una lettera appoggiata a una parete del cimitero c’è la statua di un angelo che tiene un foglio con la scritta in latino «Requiescat in pace», «Riposa in pace». Lì sarebbero custodite le ossa di Emanuela. «Cercate dove indica l’angelo», dice la lettera. L’11 luglio le sepolture vengono aperte. Dovrebbero in teoria contenere le ossa delle principesse Sophie von Hohenlohe e Carlotta Federica di Mecklemburgo. Nelle urne funerarie però non si trova nulla. L’ipotesi è che i resti delle principesse, morte entrambe nella prima metà dell’Ottocento, siano state spostati nel corso di alcuni lavori del passato. Nel cimitero teutonico però si ritrovano anche alcune ossa. Due anni dopo le analisi di un laboratorio specializzato certificano che non si tratta di quelle di Emanuela Orlandi.
Le «attenzioni» dell’«alto prelato»
Nell’articolo con cui presenta il documentario di Netflix il Corriere della Sera racconta una circostanza che presenta come inedita. Un’amica di Emanuela che non ha mai parlato con i magistrati sostiene che la ragazza le rivelò di aver ricevuto «attenzioni» da un «alto prelato» prima di sparire. Si parla di «un approccio all’interno delle Mura vaticane e turbò moltissimo Emanuela proprio alla vigilia della sua scomparsa». Va segnalato che la pista della pedofilia non è inedita nel caso Orlandi. Il giornalista Pino Nicotri nel libro “Emanuela Orlandi – La verità dai Lupi Grigi alla Banda della Magliana” racconta di un segreto conosciuto durante una confessione da una fonte vaticana secondo il quale Emanuela Orlandi sarebbe morta la sera stessa della sua scomparsa durante un “festino” che avrebbe avuto luogo in Salita Monte del Gallo, a due passi dal Vaticano e vicino alla stazione ferroviaria di San Pietro.
E ha ricordato che durante una delle tante telefonate dell’Amerikano si sente un rumore in un attimo di silenzio che somiglia al fischio di un treno. Ma lo stesso racconto dell’amica di Emanuela non è un inedito di Netflix. Nel suo libro “Atto di dolore” uscito in prima edizione nel 2016 il giornalista Tommaso Nelli ha raccontato di un incontro con un ecclesiastico nei Giardini Vaticani nel gennaio 1983. A dirlo è una sua ex compagna di scuola delle elementari e delle medie. «A livello sessuale magari aveva avuto qualche approccio. Lei dice: “No, io non ce vado più ai Giardini, evito”. […] Ha detto che s’era preso delle confidenze nel senso che m’ha detto “Non proprio ha allungato le mani, me voleva tocca’, ‘na cosa così”».
Unire i puntini
Chi ha avuto la forza di leggere fino a qui deve sapere che questa non è una sintesi esaustiva di tutto quello che è successo nel caso Orlandi in quasi quarant’anni. Se si dovesse sistematizzare ogni spunto investigativo dell’epoca e dei giorni nostri bisognerebbe scrivere il doppio. Ma non è difficile immaginare la tentazione che si ha ogni volta che si legge di mezze prove, quasi-ammissioni, circostanze misteriose che non sembrano proprio essere coincidenze. Ovvero quella di “unire i puntini” come nel famoso gioco della Settimana Enigmistica. Ovvero quella di prendere un pezzo di un’indagine, una parte di un’altra, condirla con qualche leggenda metropolitana, aggiungere un paio di “non poteva non sapere” e presentare la propria teoria come una verità ormai a un passo dalla rivelazione.
Un esempio? Siccome anche il Gip di Roma dice che la Banda della Magliana è «coinvolta» nel caso Orlandi, allora ecco che si può pensare che Emanuela sia stata rapita per ricattare il Vaticano a causa dei soldi versati allo Ior e persi a causa del crack del Banco Ambrosiano per colpa di Marcinkus. Ecco che entra in scena il Presidente della mala romana che per fare un favore alla mafia ricatta la Santa Sede per farsi restituire i soldi.
E se volete potete aggiungere qualche colpo in banca di dieci anni dopo per sostenere che nell’occasione qualcuno ha pareggiato i conti. Ulteriori varianti si possono aggiungere a piacimento. Si può sostenere che il Vaticano abbia a un certo punto riscattato la ragazza, come dimostra la Relazione del Vaticano che è falsa perché chi ha quella vera voleva mandare un segnale (ma allora perché non l’ha mandato più potente pubblicando anche una sola nota spese e chiedendone conto agli interessati?).
Una storia piccola dietro una Grande Storia
Ma questa teoria ha un problema di fondo. In quasi quarant’anni di indagini non si è mai dimostrato in alcun modo che il “lato pubblico” del caso Orlandi sia in qualche modo collegato alla vera sorte della ragazza. I depistatori entrati in scena subito dopo l’appello del Papa non hanno mai dato una prova dell’esistenza in vita di Emanuela. Anche se avrebbe accreditato in modo decisivo presso la Santa Sede. Una circostanza importante, specialmente se devi riscuotere. C’è differenza tra un depistatore e un assassino o un sequestratore. È possibile che non ci sia nessuna correlazione tra chi forse ha provato a ricattare (cosa di cui ad oggi non c’è alcuna prova) e chi ha fatto scomparire Emanuela Orlandi. E allora i puntini si possono unire in maniera differente. La “pista internazionale” ha distolto l’attenzione dei magistrati sulle indagini di partenza, che puntavano invece su quella sessuale.
In questo caso si indaga in primo luogo sui circoli amicali e parentali della persona scomparsa. Negli anni qualche giornalista lo ha fatto, cavandone oggettivamente poco. Inutile fare nomi visto che non risulta siano stati coinvolti in indagini da parte della magistratura. Ma secondo questa prospettiva Emanuela sarebbe morta nel giorno della scomparsa, forse perché ha incontrato due balordi sconosciuti o – peggio – perché si è fidata ad andare con qualcuno perché lo conosceva benissimo. Da qui si può continuare a unire i puntini in un groviglio sempre più armonioso: i depistaggi arrivano da chi conosceva la verità e voleva distogliere l’attenzione degli inquirenti. Oppure arrivano da qualcuno che, come la Stasi, ha letto i giornali e ne ha approfittato. E così una storia piccola potrebbe essere finita dentro una Grande Storia, magari senza che tra le due ci sia una vera connessione.
Tra le pagine chiare e le pagine scure
Si può fornire un’ulteriore variante unendo altri puntini. A far sparire Orlandi è stato un «alto prelato» in una storia di pedofilia come quelle che negli anni successivi abbiamo imparato a conoscere nell’ambito della Chiesa. Quello che è accaduto dopo può essere correlato o non correlato con la morte, ma di certo ha contribuito a coprire le responsabilità. E allora cosa rimane tra le (poche) pagine chiare e le (tante) pagine scure del caso Orlandi?
È giusto dire a questo punto che quello di unire i puntini come nella Settimana Enigmistica è un gioco per bambini. Le madri lo danno da fare ai figli in spiaggia per levarseli di torno e prendere in pace la tintarella. Ogni tesi che unisce puntini funziona perché omette di citare le prove che la smentirebbero. O di segnalare i relativi riscontri negativi. Ma così di solito si costruiscono le teorie del complotto, non si arriva certo alla verità. Che non sta per niente in cielo, come si intitolava un film sulla scomparsa di Orlandi. La verità sta in terra, ben nascosta. Per trovarla bisogna continuare a scavare.
Leggi anche:
- Caso Orlandi, la lettera segreta di Andreotti: così Don Vergari chiese aiuto per il presunto boss della Magliana
- Il boss della Banda della Magliana: «Su Emanuela Orlandi il Vaticano deve dire la verità»
- Esclusiva di Repubblica: «Emanuela Orlandi rapita da mio figlio su ordine di Renatino De Pedis»
- Katty Skerl: la storia della bara sparita dal cimitero del Verano e il legame con Emanuela Orlandi
- Emanuela Orlandi, archiviato il fascicolo sulle ossa al cimitero Teutonico: «Si chiude uno dei capitoli di questa triste vicenda»