«Io organizzo rave, ma ho bevuto di più alla mia festa di laurea. Il decreto del governo? Fa leva sulla paura»
Sfortunata locuzione quella di rave party: diventa di dominio pubblico quando ci sono casi di cronaca che sfiorano la tragedia, cade nel dimenticatoio quando le feste di delirio – traduzione letterale – si svolgono nell’indifferenza quotidiana. Nei giorni scorsi, a Modena, si stava svolgendo uno di questi raduni. La coincidenza con l’insediamento del nuovo governo Meloni ha portato l’esecutivo a varare, nel primo decreto utile, una stretta contro «chi «organizza o promuove» un evento da cui «può derivare un pericolo per l’ordine pubblico o l’incolumità pubblica o la salute pubblica». Una norma che ha nel ministro dell’Interno Matteo Piantedosi il suo ispiratore, ma che è stata definita «migliorabile» da alcuni esponenti dalla maggioranza stessa. «Buona parte delle persone associa ai rave tre parole: droga, techno e degrado. Queste sono cose che ho visto più spesso nelle discoteche che ai rave a cui ho partecipato. I rave sono tutt’altra cosa». A parlare è Corrado: poco più di vent’anni, una laurea in tasca e il master in Economia a un palmo. Studia e vive a Bolzano, frequentatore abituale di rave in Alto Adige, ne organizza alcuni di piccole dimensioni. «I miei rave non sono altro che feste private tra conoscenti che durano circa 20 ore. Partecipano dalle 100 alle 200 persone. I dj mettono la musica, si mangia e si beve in un contesto amichevole». I rave che frequenta da partecipante, invece, raggiungono il migliaio di persone. «Si svolgono lungo i fiumi, nei prati sulle Alpi o, talvolta, nei tunnel e nei bunker costruiti a cavallo tra le due guerre mondiali».
Corrado, qual è la differenza tra una festa e un rave party?
«Onestamente faccio fatica anch’io a trovare delle differenze così marcate. Quando si parla di rave, la gente pensa subito alla musica techno o elettronica e alle droghe. Per la mia esperienza, queste sono cose che si possono trovare anche in qualsiasi serata in discoteca. I rave che organizzo io non sono altro che occasioni in cui la gente si raduna per festeggiare. Durano una giornata, dall’ora di pranzo alla mattina seguente. Si alternano i dj, c’è una scaletta ben definita degli eventi, si fanno jam session tra i ragazzi che portano i propri strumenti, le persone cantano e si conoscono su un prato. L’elemento preponderante è certamente la musica».
E come sono invece i rave a cui partecipi senza esserne l’organizzatore?
«Ne ho visti un po’ in giro per l’Alto Adige, diversi sono organizzati da amici dell’università. Ci si ritrova sulle spiaggette del fiume Talvera, dove c’è un po’ di sabbia e gli alberi dei boschi, oppure nelle praterie in montagna. Diversi rave si svolgono anche nei tunnel o nei bunker costruiti durante le guerre. Generalmente, sono sempre luoghi del demanio. Se c’è una costante, è quella di voler creare una comunità di persone. Sia da parte di chi organizza, sia da parte di chi frequenta i rave, si percepisce la tensione verso qualcosa di collettivo che vada oltre l’esperienza individuale. E non è sballo fine a se stesso».
Cos’è allora?
«Io non faccio uso di sostanze stupefacenti. Qualche volta ho fatto uso delle cosiddette droghe leggere. Certo, si beve, ma come in qualsiasi altro evento socialmente accettato: forse sono stato più ubriaco alla mia festa di laurea che agli ultimi rave. Detto ciò, si tratta di eventi dove le persone hanno voglia di stare insieme, conoscersi e divertirsi senza dover smettere di festeggiare dopo un paio di ore. Ma c’è anche tanta cultura. Quella cultura che non trova sfogo negli spazi urbani. Ai rave dove sono stato ho visto workshop di design, pittura, musica, sessioni di yoga, mercatini di artigianato. Ai rave puoi trovare davvero di tutto».
La musica, dicevi, è l’elemento preponderante.
«Sì, è vero. Da questo punto di vista, i rave sono un’ottima occasione per approfondire generi musicali spesso ritenuti di nicchia. E non è solo techno, ma ci sono anche i rave metal ad esempio».
Perché sono così frequentati?
«Perché a tante persone manca un posto dove radunarsi per esprimere davvero se stesse. Penso ai dj che ai rave hanno modo di raggiungere un pubblico davvero interessato, ai tecnici del suono, ai designer, agli artisti: sono tutti animati dalla voglia di fare e di farsi conoscere da una comunità di persone, generalmente giovani, che è lì in molti casi per espandere il proprio cerchio di amicizie. Si tratta di giovani responsabili, non di matti con istinti suicidi come ci descrive qualcuno. Certo, poi ci sono quelli che esagerano, ma questo succede anche nella discoteca più patinata della città».
C’è un problema di sicurezza, però.
«Chi dà vita a un rave lo fa con una certa consapevolezza. Gli organizzatori sanno che ci sono ragazzi che assumono droghe – ma ribadisco che ci sono ovunque, anche in discoteca -, e individuano partecipanti più esperti in materia che hanno maturato della conoscenza in questo campo e, nel caso, possono prestare un primo soccorso per far riprendere chi si sente male. Poi vengono allestiti dei falò, dei luoghi dove potersi riposare. Qui in Alto Adige ho sempre visto una certa attenzione affinché si eviti che qualcuno si faccia male».
Mi pare di capire che la droga circoli, ma come in qualsiasi altra città o provincia di Italia.
«Io non ho mai visto spacciatori aggirarsi per i rave party cercando di vendere droga. È una cosa molto più privata. Chi ce l’ha la usa per sé o la vende, sì, ma con la massima discrezione. Sono sicuramente più evidenti le piazze di spaccio in città. E non funziona certamente come in alcuni locali delle capitali europee. A Berlino ci sono i club dove i gestori consentono che siano alcune persone a occuparsi della vendita di stupefacenti, per garantire che i clienti consumino prodotti di qualità accettabile ed evitare che la gente stia male. Detto ciò, tutte le persone che vanno ai rave lo fanno a proprio rischio e pericolo. Qualora succedesse qualcosa, il primo pensiero non è certamente denunciare l’organizzatore: non è nell’interesse di nessuno, perché si andrebbe a distruggere tutta la comunità. Poi ci sono quegli organizzatori così bravi che danno alcune informazioni ai partecipanti prima che raggiungano il luogo del rave. Come, ad esempio, di indossare le scarpe giuste, di portare delle torce per la sera. Ho visto rave al chiuso dove gli organizzatori avevano predisposto sistemi di illuminazione per segnalare le uscite di emergenza».
Comunità è una delle parole chiave che hai utilizzato. Come si entra a far parte?
«I rave si svolgono generalmente all’aperto. Altri nei bunker anti missili, nei tunnel o nei capannoni. In ogni caso, però, si tratta di cose molto riservate che vengono annunciate ai conoscenti. Poi, con il passaparola, si allarga il cerchio. Ma difficilmente arrivi a un rave se non conosci nessuno dei partecipanti. Mi è capitato di conoscere persone che arrivavano dall’estero, ma sono sempre legate a contesti universitari o amici di amici. Comunque, funziona così: una settimana prima della festa, su gruppi whatsapp chiusi e con un solo amministratore che coordina il tutto, si ricevono informazioni sul luogo, su cosa portare, sul programma della giornata. È di fatto l’invito».
Perché questi eventi non si possono svolgere previa autorizzazione, nella legalità?
«Mancanza di spazi adeguati, costi enormi, difficoltà nell’ottenere le autorizzazioni necessarie. Qui, a Bolzano, il problema principale è la mancanza di luoghi che possano essere adibiti a ospitare feste del genere. Si sfocia nell’illegalità perché le licenze sono difficili da ottenere. Altrettanto le certificazioni in materia di sicurezza. Ancora, se si vuole fare una festa, serve una partita Iva. I rave party o feste illegali che dir si voglia diventano, a volte, anche il trampolino di lancio per chi vuole imparare a organizzare feste serie ed eventi. È vero, si sfocia nell’illegalità, ma ciò avviene per assenza di alternative. Ultimamente si sta diffondendo la prassi di costituire delle associazioni culturali con lo scopo di avere meno problemi nell’organizzazione di rave. Ne stanno nascendo così tante che si è allungato il tempo ed è diventato macchinoso il processo per ottenere il via libera».
Mi sembra di cogliere una mano tesa alle istituzioni: rendere più semplice il sistema che sta alla base dell’organizzazione di questi eventi. Il governo in carica, invece, ha scelto la strada della deterrenza e della repressione. Cosa ne pensi?
«Che è un decreto che fa leva sulla paura».
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