Israele, cosa significa il trionfo della destra di Netanyahu e Ben-Gvir
Mancava solo il sigillo dei numeri per ufficializzare il ritorno al governo di Israele di Benjamin Netanyahu. Il trionfo della sua coalizione di (ultra)destra era apparso chiaro sin dagli exit poll circolati alla chiusura delle urne, martedì sera, nelle elezioni anticipate convocate dopo la fine dell’esperienza del governo “extra-large” guidato da Naftali Bennett. Ma i protagonisti politici interni e esterni attendevano la conclusione dello spoglio per prendere le misure del nuovo scenario politico. Eccolo. Il Likud di King Bibi torna per distacco primo partito del Paese con 32 seggi. Ma a portare una quota cruciale di altri decisivi seggi è il blocco di estrema destra di Sionismo Religioso guidato da Itamar Ben-Gvir e Betzalel Smotrich. Con 14 seggi, è loro il vero exploit di questa tornata elettorale: ora puntano a entrare nel governo, ottenere ruoli chiave, e far valere tutto il loro peso sugli orientamenti del prossimo governo. A completare la coalizione, cui Netanyahu ha già cominciato a lavorare, dovrebbero essere i partiti religiosi di Shas e Unità nella Torà, tradizionali alleati del Likud. Con 11 e 7 seggi rispettivamente, completerebbero la maggioranza di 64 deputati alla Knesset (il Parlamento israeliano, composto da una sola Camera da 120 seggi).
Sondaggi sbaragliati
L’affermazione del blocco di destra di Netanyahu smentisce tutte le previsioni diffuse anche nelle ultime settimane prima del voto dai sondaggisti israeliani, che prevedevano un testa a testa tra la coalizione di Netanyahu e quella di centro-sinistra guidata dal premier uscente Yair Lapid, con lo scenario possibile di un nuovo Parlamento bloccato e ingovernabile. Così non sarà, e nel campo anti-Netanyahu ora ci si lecca le ferite. A reggere alla prova elettorale è soltanto la formazione guidata dal premier uscente ed ex giornalista Lapid, Yesh Atid (C’è speranza), che coi suoi 24 seggi si appresta a guidare l’opposizione. Più deludente, con 12 deputati, il risultato di Unità Nazionale dell’alleato Benny Gantz, ex capo di Stato maggiore e sfidante di Netanyahu alle scorse elezioni. A sinistra, restano le macerie. Il partito laburista, per lunghi decenni pilastro dei governi d’Israele, vede ulteriormente decimata la sua rappresentanza – entra in Parlamento per il rotto della cuffia con appena 4 deputati – mentre resta fuori dalla Knesset per la prima volta da trent’anni il Meretz. Lo spostamento a destra dell’elettorato israeliano prosegue e si consolida.
Astri nascenti
A 73 anni, Benjamin Netanyahu si prepara quindi a rientrare nell’ufficio di primo ministro d’Israele, dove ha già seduto dal 1996 al 1999 e poi di nuovo ininterrottamente dal 2009 al 2021. Un “regno” valso a lui il primato di premier più longevo nella storia d’Israele, e sotto il quale altri interpreti dell’umore nazionalista crescente nel Paese sono cresciuti – con o senza l’avallo di Netanyahu. Tra questi anche Itamar Ben-Gvir e Bezalel Smotrich. Seguace in gioventù degli insegnamenti di Meir Kahane, rabbino oltranzista anti-arabo il cui movimento fu sciolto nel 1994 per incitamento al razzismo, Ben-Gvir ha sostenuto in passato la necessità di espellere i cittadini arabi “non leali a Israele”, e vanta (letteralmente) di essere stato incriminato più di 50 volte per incitamento all’odio. Poche settimane prima del voto, si era lasciato ritrarre con in pugno una pistola sul luogo di scontri a Sheikh Jarrah, intento a incitare i poliziotti ad aprire il fuoco sui palestinesi. Avvocato egli stesso, prima di entrare in politica teneva in casa un ritratto di Baruch Goldstein, il terrorista americano-israeliano che nel 1994 massacrò a Hebron 29 musulmani palestinesi e ne ferì altri 125.
Nel 1995, quando l’allora premier laburista Yitzhak Rabin stava concludendo gli accordi di pace con l’Olp di Yasser Arafat, si fece fotografare con lo stemma Cadillac appena sottratto all’auto presidenziale. “Abbiamo preso questo, il prossimo è lui”, disse. Poche settimane Rabin venne ucciso a Tel Aviv da un estremista di destra israeliano, il processo di pace sprofondò e si aprì dopo pochi mesi l’era-Netanyahu. Come Ben-Gvir, anche Smotrich vive in un insediamento ebraico oltre la Linea Verde, sulle alture del Golan, e si è distinto in passato per commenti oltranzisti contro gli arabi ed altre minoranze. In Parlamento dal 2015, proviene da una famiglia religiosa e ha più volte sostenuto la necessità d’incardinare le leggi dello Stato nella Torà: si è descritto in passato come “orgoglioso omofobo” e ha animato proteste contro il Gay Pride. Forti della loro affermazione, Ben-Gvir e Smotrich puntano ora – secondo i media israeliani – a diventare rispettivamente ministro della Pubblica sicurezza e della Giustizia.
Gelo oceanico
Il ritorno al potere di Netanyahu con alleati così “esplosivi” rischia però di isolarlo diplomaticamente. Mentre l’Ue non ha ancora commentato ufficialmente i risultati, dagli Usa – storico alleato d’Israele – già trapelano i primi segnali d’insofferenza. «Ci auguriamo che tutti i dirigenti del governo israeliano continueranno a rispettare i valori di una società democratica aperta, compresi la tolleranza e il rispetto per le minoranze», ha detto a caldo un portavoce del Dipartimento di Stato. Il senso reale dietro i toni felpati della dichiarazione lo hanno spiegato funzionari Usa al giornale online Axios: l’amministrazione guidata da Joe Biden è pronta a lavorare con qualsiasi governo eletto in Israele, ma potrebbe rifiutarsi di collaborare con personaggi politici apertamente razzisti – a partire da Ben-Gvir. La navigazione del nuovo duo Netanyahu-Biden, dopo gli anni tempestosi della coabitazione con Barack Obama, s’annuncia complicata.