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Fragilità psicologica dei migranti? L’esperto Rizzi: «I traumi di guerra esistono» – L’intervista

10 Novembre 2022 - 21:22 Giada Giorgi
La premier Meloni ha pubblicamente definito «bizzarra» la scelta fatta dagli operatori sanitari di far scendere tutti i migranti per estrema fragilità psicologica. Ne abbiamo discusso con il presidente di Fondazione Soleterre

Con una crisi diplomatica in atto, vite che continuano a morire in mare e navi che chiedono aiuto, la questione migranti agita il governo Meloni, che nelle ultime ore ha aggiunto tra i dibattiti principali legati all’accoglienza dei profughi quello dell’assistenza psicologica. Mentre poche ore fa i medici italiani sono stati chiamati a bordo della Humanity 1 per decidere chi fosse in condizioni «di buona salute» e chi no, al fine di prevedere solo lo sbarco dei considerati «fragili», la premier Meloni ha pubblicamente definito «bizzarra» la scelta fatta dagli operatori sanitari di far scendere tutti i migranti, nessuno escluso, presenti anche sulla Geo Barents e sulla Rise Above per estrema fragilità psicologica. Così il tema della salute mentale si inserisce nella complicata questione della gestione migranti, aprendo un dibattito non poco acceso sulla tipologia di assistenza necessaria a chi fugge da guerre e persecuzioni. Damiano Rizzi è il medico psicologo clinico, psicoterapeuta e presidente di Fondazione Soleterre, realtà che da vent’anni si impegna a difendere e garantire il diritto alla salute nelle «terre sole», luoghi colpiti da guerra e distruzione, con popolazioni estremamente povere e indifese. Presente in 24 Paesi del mondo, Soleterre assiste attualmente più di 2.000 profughi e difende gli stessi diritti alla salute di «essere umani prima che migranti o profughi» anche in Italia.

Dottor Rizzi, cosa hanno valutato di preciso i suoi colleghi quando hanno deciso di far sbarcare tutti i migranti dalle navi attraccate al porto di Catania perché «psicologicamente fragili»? Di che sintomi stiamo parlando?

«Esiste una psicopatologia legata a traumi provenienti da avvenimenti di guerra. Manifestazioni psichiche, individuali o collettive, che hanno bisogno di un intervento per far sì che non peggiorino e diventino drammaticamente centrali nella vita di chi fugge da un conflitto. Ho avvertito in queste ore una banalizzazione estrema di questa urgenza che è pericolosa e avvilente. Qualcuno ha ridotto tutto a qualche attacco di panico. Quasi a legittimare chi ascolta a minimizzare i drammi che i profughi di guerra subiscono. Perché di questo si tratta: persone che fuggono da condizioni di vita ed esperienze estreme».

Di che sintomi parliamo allora?

«In questi giorni si è parlato tanto di bambini presenti sulle navi. Solo per loro i dati raccontano di un rischio suicidario di 12 volte superiore alle condizioni normali. Si ritrovano piccolissimi a convivere con scene che si ripresentano nella loro mente in modo costante. Con quelle che chiamiamo “memorie traumatiche”. A vivere con dei genitori, quando rimangono in vita, anche loro totalmente assorbiti dai traumi di guerra e che quindi non sono più in grado di osservarli e prendersi cura di loro. I riferimenti scompaiono e la mente non riesce più a ritrovare punti di riferimento. Il desiderio che si innesca è quello di annientarsi, soprattutto se alla fuga dalla loro terra seguono giorni e giorni in mare senza la certezza di riuscire a salvarsi. Per gli adulti non è molto diverso. Istinti suicidari, depressione, ansia, e un frequente processo di distaccamento dalla realtà. La dissociazione porta a relegare le esperienze traumatiche in un piccolo angolo della mente. Un processo molto pericoloso per i soggetti colpiti che possono vedersi riemergere in qualsiasi momento le memorie negative senza avere alcuna capacità di controllo. E poi la totale assenza di prospettiva per il futuro. Esiste un’intera parte di umanità che dopo una guerra smette di chiedersi cosa potrà fare tra un’ora, tra due giorni, tra un anno. Tutto scompare».

Cosa succede se non si interviene?

«Abbiamo appena realizzato uno studio i cui primi dati sono consultabili in Italia tramite il Policlinico San Matteo di Pavia. Intanto posticipare la cura di disturbi e sintomi post traumatici di guerra ne provoca un peggioramento drastico, anche in soggetti che fino a quel momento non avevano mostrato alcuna disposizione alla depressione o ad altri malesseri. La risoluzione dei disturbi è poi rarissima se attorno ai soggetti non si ricreano contesti per loro vivibili. Gli studi dimostrano una chiara connessione tra lo stato di salute mentale e gli eventi traumatici di guerra e questo è un dato scientifico oggettivo. In Afghanistan più del 62% delle persone ha riferito di aver vissuto almeno quattro eventi traumatici nei dieci anni precedenti. Sono stati riscontrati per il 67,7% sintomi depressivi, per il 72,2% sintomi di ansia e per il 42% sintomi da disturbo post-traumatico da stress. La morte come risultato delle guerre è solo la punta dell’iceberg perché la popolazione che sopravvive deve confrontarsi con la povertà endemica, la malnutrizione, la disabilità, il declino economico/sociale, le malattie psicosociali. E allora io mi chiedo: come può tutto questo non essere considerata una condizione di fragilità? E come si può considerare «bizzarra» dal punto di vista sanitario prendersi cura di persone che nel giro di poco ore hanno visto bombardarsi la casa, morire la famiglia, distruggere ogni punto di riferimento?»

Questo vuol dire che ancor prima di verificare lo stato di salute fisico, doveva essere quello mentale a dire molto sulla necessità di accoglienza?

«Senza dubbio. Non c’è bisogno nemmeno di verifica se scappo da una guerra, se disperatamente sono arrivato a pagare trafficanti per fuggire e ho viaggiato in mare rischiando di morire per giorni. Sa cosa vuol dire per una donna mettersi in viaggio munendosi già di anticoncezionali alla partenza perché sa bene a quale destino andrà incontro in quei giorni di viaggio disperato?»

Che strumenti ci sono attualmente in Italia per garantire questo tipo di assistenza?

«C’è molto poco purtroppo. Centri di accoglienza per stranieri che in 25 euro al giorno dovrebbero inserire nel pacchetto accoglienza anche la cura psicologica. La copertura dei bisogni è ancora minima e molti centri che si sostengono con fondi privati chiudono per mancanza di risorse».

Ha parlato di trafficanti. La narrativa sulla mancata accoglienza è spesso strettamente legata all’intenzione di combattere il fenomeno. Sono davvero due temi collegati?

«L’attività dei trafficanti è la più proficua nel mondo (insieme a quella per estorsioni e a al traffico d’organi). In molti parti del mondo è qualcosa che trova la collaborazione dei governi. In Messico, durante un censimento dei migranti, in tempo zero una nostra operatrice si è ritrovata con una pistola puntata alla tempia. Sono anche queste le realtà che ruotano attorno alla questione migranti. Senza contare le operazioni di colonialismo che molti Paesi ancora fanno sulle zone più povere della terra. Dove si continuano a sfruttare i luoghi e le persone che ci vivono. Ed è per questo che la soluzione sta solo in progetti di cooperazione internazionale. In accordi europei che non lascino sulle spalle di uno o due Paesi i bisogni di una grandissima parte di umanità che cerca aiuto. Di un’azione strutturata e sistematica nei singoli Paesi da cui le persone fuggono. Va da sé che questo ha molto poco a che vedere con il diritto di un bambino, di un uomo o di una donna che fuggono ad essere curati».

Una realtà che si scopre complessa quando a parlarne è chi è davvero sul campo. Il rischio di semplificazione dei fenomeni migratori nelle ultime ore sembra coinvolgere anche la questione della salute mentale. Cosa non si è ancora compreso?

«In un Paese come l’Italia in cui l’80% dei bambini e degli adolescenti non ha un supporto psicologico pubblico come si può far capire a livello culturale che la salute mentale di chi scappa da una guerra è una delle necessità fondamentali di assistenza? A fronte di una tale ignoranza sul tema della salute mentale, di una gravissima carenza di servizi in ambito psicologico e psichiatrico, appare molto semplice per chi è al vertice parlare creando un contesto mistificante dove chi arriva non è più un essere umano ma un nemico. E quando la consapevolezza generale su un tema è minima, quello che si dice può avere una funzione educativa per la popolazione. Ora con il tema del supporto psicologico si è arrivati anche a prendere in giro la disperazione delle persone. Ma questa è la logica anche di una certa guerra politica che trova la sua strategia nel disumanizzare. Stiamo poi parlando di Paesi da cui si fugge in cui il tema della presa in carico della salute mentale è un’utopia. Ma più dell’85% della popolazione mondiale vive in 153 Paesi definiti a basso o medio reddito. In queste zone la percentuale con gravi disturbi mentali che non ha accesso al trattamento di cui avrebbe bisogno arriva all’85% rispetto al 35-50% delle persone nei Paesi ad alto reddito. Invece di combattere questo sistema si combatte chi ne è vittima e anche chi aiuta le vittime».

Tra poco con Soleterre ripartirà per l’Ucraina.

«Siamo riusciti a costruire una grande casa che riuscirà ad ospitare diverse famiglie che arrivano dal Donbass e da altre città distrutte. Siamo già presenti a Leopoli con un centro per il supporto psicologico dei piccoli pazienti ricoverati nell’Ospedale Pediatrico Regionale dell’Ucraina occidentale. Nell’Ospedale pediatrico St. Nicholas per la cura dei minori colpiti da traumi da scoppio, esplosioni di bombe, prendendoci carico anche dei loro genitori. E ancora con una rete di più di 40 psicologi sul territorio. Uno studio condotto 36 mesi dopo l’inizio del conflitto ci ha permesso di documentare un’esposizione diretta agli eventi traumatici legati alla guerra pari al 65% tra gli sfollati interni con livelli di depressione oltre il 30%».

Cosa può aiutare a far capire con chiarezza il significato dell’accoglienza per chi fugge verso un posto migliore?

«La storia di un bambino siriano nato con una malattia che lo ha privato delle braccia. Attraversando un campo minato vede suo zio morire. Nell’esplosione di una mina perde anche le gambe, riducendosi a un tronco. Questo bambino ora gioca a calcio e va a scuola. Assistito da noi anche e soprattutto a livello psicologico, è riuscito a non voler morire del tutto. Sono queste le persone fragili di cui si sta parlando».

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