Pd, Bettini: «Orlando candidato più autorevole, ma buona la proposta di Ricci». Soumahoro? «Esaltata figura che non si conosceva» – L’intervista
Il tour di presentazioni del suo libro l’ha portato lontano da Roma. Non è un problema: da anni, ormai, Goffredo Bettini svolge buona parte della sua attività politica al cellulare. Per le trattative più complicate della scorsa legislatura, gli esponenti di quasi tutti i partiti hanno fatto un passaggio dal telefono del dirigente del Partito democratico. Anche se lui ci tiene a smentire «il cliché secondo il quale molto o tutto passa per il mio telefono». Lo raggiungiamo al cellulare anche noi, mentre si trova a Senigallia. La distanza dal Nazareno, in questa fase, non è solo fisica. Enrico Letta ha deciso di non nominarlo tra gli 87 membri del comitato costituente del Pd. «Darò il mio contributo dall’esterno», dice. Sugli eventuali candidati alla segreteria, «Andrea Orlando sarebbe il più autorevole». Stefano Bonaccini il più distante.
Bettini, la sinistra del Pd fatica a trovare un candidato alla segreteria. Orlando si è sfilato, Schlein è una che lei definirebbe “Papa straniero”. Ieri si è detto vicino alla piattaforma di Ricci. Sarà lui il candidato che sosterrà fino in fondo o attende che salti fuori un altro nome?
«Non è proprio così. Nella sinistra c’è una riflessione in corso, che parte dalla valutazione delle piattaforme dei candidati già in campo. Allo stato attuale le idee proposte da Ricci mi sembrano le più convincenti. Vedremo gli sviluppi; anche perché non mi pare affatto che Orlando si sia sfilato. Continuo a pensare che sarebbe il candidato più autorevole».
Tra gli esponenti che hanno mostrato una disponibilità a correre per la segreteria, la piattaforma di Ricci è quella a lei più vicina. Qual è la più lontana?
«Vede, ho apprezzato lo sforzo di Bonaccini e della Schlein di chiarire i primi intenti programmatici a base delle loro candidature, che sono diverse ma ugualmente serie. La più lontana? Per vari motivi non mi sento di partecipare, per quello che può contare, alla corsa di Bonaccini. Ma ripeto: i dieci punti indicati da Ricci a Roma, mi sembrano interessanti. Un contributo importante, di chi sa unire la concretezza di un sindaco alla limpidezza di un orizzonte ideale».
Crede che questo congresso, per come è stato impostato, porterà a un reale cambiamento del partito?
«O si cambia o si muore. Occorre un congresso franco, non reticente, che scelga con nettezza una identità e una linea politica. Da troppo tempo il Pd non è né carne, né pesce. Nel conflitto della società deve chiarire meglio da che parte sta. Con gli “ultimi” o solo con le élite illuminate? Con il salotto buono della grande imprenditoria del Nord o con le medie e piccole imprese che stentano a pagare gli stipendi alla fine del mese? Con un fisco che chiede ai ricchi di aiutare il paese in questo momento difficile o con la “prudenza” che lascia le cose come stanno? Con un ruolo autonomo dell’Europa per sostenere fino all’ultimo l’Ucraina, ma contemporaneamente capace di lavorare per la pace o con l’offensiva ideologica contro tutto il popolo russo, che non può che rafforzare la dittatura di Putin? Potrei continuare».
Si è dato una spiegazione del perché non è stato incluso tra gli 87 membri del comitato costituente? C’è di tutto in quella lista.
«Non commento la lista. Ma no, non mi sono dato alcuna spiegazione. Darò il mio contributo dall’esterno. Ho scritto un libro, A sinistra. Da capo, che sta suscitando un ampio dibattito. Le presentazioni raccolgono tantissime persone, in sale sempre affollate, nelle vendite è tra i primi posti. D’altra parte da anni il mio ruolo è prettamente circoscritto al dibattito delle idee e non prevede l’esercizio di alcun potere istituzionale o di partito. Anche se un’odiosa campagna di una parte della stampa a me avversa mi dipinge come un oscuro deus ex machina che decide tutto. Niente di più falso. Poi, oscuro? Ho espresso sempre le mie posizioni apertamente, alla luce del sole, senza ambiguità; e per questo ho pagato anche prezzi salati».
La stima per il segretario Enrico Letta rimane intatta?
«Credo di aver aiutato Letta in tutti i passaggi difficili. Con lealtà e coerenza. Talvolta, gli ho espresso i miei dubbi. Conte ha commesso un errore grave nel far cadere il governo Draghi a pochi mesi dalla scadenza naturale del suo mandato; ma Letta è stato precipitoso nel chiudere subito ogni possibilità di alleanza con il Movimento 5 stelle nelle elezioni politiche anticipate. Nei collegi si è andati così ad una “Caporetto” annunciata. Comunque, verso il Segretario rimane in me intatto un sentimento di rispetto, di solidarietà umana e di gratitudine per aver preso in mano il Pd in una fase convulsa e difficile, dopo le improvvise dimissioni di Zingaretti».
Molti giovani militanti, penso ad esempio alla piattaforma Coraggio Pd di Benifei, invocano una cesura con la classe dirigente che fino ad oggi ha guidato il partito. È d’accordo?
«Sì. È il momento di una nuova generazione. La mia deve svolgere un lavoro di formazione, consigliare, aiutare le nuove leve. Il partito, per fortuna, è ricco di giovani in gamba; molti impegnati come sindaci amati e vincenti in territori politicamente di destra. Una raccomandazione: acquisendo nuovi spazi e nuovo potere la giovane generazione emergente deve stare rigorosamente lontana dal cinismo così diffuso nella politica di oggi. Non deve solo sostituire i più vecchi nella struttura del partito, deve rinnovare radicalmente la pratica politica».
In ogni momento importante, da anni a prendere le decisioni sono i soliti capi corrente come Orlando, Franceschini, Guerini. Perché nel Pd non c’è stato un vero ricambio generazionale?
«Attenzione! Orlando, Franceschini e Guerini sono dirigenti di grande valore. “Pezzi” pregiati di governi che hanno salvato l’Italia come il Conte II e quello presieduto da Draghi. Ognuno, con le proprie caratteristiche e la propria specifica funzione, che non si può schiacciare sul ruolo “povero” di capo corrente. Superare le correnti lo dicono un po’ tutti. Ma per farlo significa cambiare totalmente la forma partito attualmente esistente. Lo sostengo da anni, insieme a pochi altri; tra questi Roberto Morassut, che ha scritto pagine egregie su questo tema. Le correnti devono trasformarsi in aree di pensiero, essenziali per il pluralismo e una ricca vita democratica del partito. E gli iscritti devono recuperare una loro libertà di confronto e di decisione. Mischiandosi tra di loro in maggioranze variabili a seconda dei temi che dovrebbero essere loro proposti e sui quali dovrebbero decidere. Così si superano le gabbie di un comando gerarchico che dall’alto raggiunge ciò che è rimasto alla base del partito. Nei territori, che sono il luogo decisivo della politica».
Passiamo alle Regionali. Ha lamentato di non essere stato coinvolto nella scelta di D’Amato per il Lazio, eppure un tempo gli affari del Pd di questo territorio passavano per il suo telefono. Stanno cercando di limitare la sua azione politica?
«Non mi sono lamentato. Ho fatto notare che ho appreso la notizia da una agenzia, proprio per smentire il cliché secondo il quale molto o tutto passa per il mio telefono. Sono anni che su Roma e il Lazio non ho alcun potere diretto e concreto. Per quindici anni Zingaretti è stato il capo del Pd e delle istituzioni più importanti. Con risultati rilevanti. Mentre io, per un’intera legislatura nel Parlamento europeo mi sono trasferito a Bruxelles, tornando a Roma pochissimo, ogni tre o quattro mesi e per brevi periodi. Non avevo neppure mai incontrato, prima di qualche mese fa, il segretario della federazione Casu, un giovane e bravissimo compagno. Detto questo, D’Amato è un candidato con potenzialità espansive enormi. Grande lavoratore e ottimo amministratore. Gli si deve universale gratitudine per come ha affrontato la pandemia, guidando la sanità del Lazio. Ora ha il compito di allargare l’alleanza che lo sostiene; soprattutto verso Sinistra Italiana, i Verdi, l’area sociale e civica che fa capo a Massimiliano Smeriglio, che influenza larghissimi ambienti, molto più di quanto possa apparire».
Guardando alla Lombardia, Renzi e Calenda hanno deciso di appoggiare Moratti. Per voi si è trattato di un nome non condivisibile per la sua storia politica o per la modalità con cui è stato scelto?
«Letizia Moratti, donna di grande intelligenza e combattività è, tuttavia, uno dei simboli della destra lombarda. Non si può combattere la destra, diventando di destra. A Majorino, il candidato del centrosinistra, va tutto il mio incondizionato appoggio».
Perché si può accettare che Conte, presidente del Consiglio dei decreti sicurezza, a un certo punto si erga a paladino della sinistra e voi stessi lo incoronate leader del progressismo, mentre la Moratti non può diventare una prima punta nell’area del centrosinistra?
«Conte ha fatto una scelta netta e rischiosa quando ha rotto il rapporto con Salvini, con un forte discorso in parlamento. Ha poi governato con i progressisti e la sinistra per due anni. Da tempo agita questioni sociali importanti e condivisibili. La Moratti non ha maturato un processo simile. Non lo sottolineo, per citare De Bortoli, perché ho una “prevenzione di classe”. Figuriamoci! Il Pd, semmai, ha un problema di classe con i poveri e quelli che conoscono la fatica del vivere, non con la borghesia milanese».
Conte, adesso, vi mantiene aggrappati a una piccola speranza di alleanza, ma pone per voi delle condizioni inaccettabili, ad esempio lo stop al termovalorizzatore. È come se vi volesse indurre un coma farmacologico per svuotarvi del consenso a sinistra, la sua area di riferimento tra l’altro. Si fida ancora di Conte?
«In politica non si può chiedere agli altri la buona educazione. Né una fedeltà che prescinda dai processi che cambiano. La fuga di una parte – per altro fino ad ora non grande – di elettori del Pd verso Conte o Calenda dipende dalla fragilità della nostra identità. Se il prossimo congresso sarà in grado di ridare una prospettiva certa al nostro partito, l’emorragia si fermerà e saliranno di nuovo i nostri consensi. Sulla Lombardia mi auguro che Conte possa sostenere, sulla base di una serie discussione programmatica, il candidato Majorino. Sul Lazio le cose sono andate diversamente. Il Movimento 5 stelle ha spaccato senza reali motivi, un’alleanza che li vedeva protagonisti. La questione del termovalorizzatore poteva risolversi democraticamente; per esempio ascoltando l’opinione dei romani. Il Pd, invece, è stato messo con le spalle al muro: ci hanno detto prendere o lasciare. Questa non è la condizione per poter praticare un confronto unitario».
È preoccupato dai contraccolpi del caso Soumahoro sulla fiducia delle persone nella sinistra e nelle sue battaglie identitarie?
«Sì, sono molto preoccupato. Quando vengono colpiti i simboli di battaglie vitali per i democratici e per la sinistra, si deve riflettere. Su come, soprattutto, vengono certe volte incoraggiate ed esaltate figure di cui si conosce poco o non del tutto la sostanza, la vita concreta, gli stili di comportamento. Tuttavia, non solo perché ho un immediato istinto garantista che mi ha fatto diffidare anche delle campagne di delegittimazione o di odio verso i miei avversari, ho un fastidio per il linciaggio, l’accanimento, il desiderio di strappare uno scalpo di un uomo ferito. Ma anche perché Soumahoro mi ispira, per come ho visto la sua reazione, un senso di solidarietà, di comprensione umana, di sobrietà e di equilibrio nel considerare quanto fosse più grande di lui il vestito che gli avevano messo addosso».
Un pensiero alla tragedia di Ischia: la norma per stimolare l’espletamento delle pratiche di condono è stata un errore?
«Sì. Anche se la storia, purtroppo, del dissesto idrogeologico italiano è molto più lunga. E in diverse misure, vede tutti responsabili. Di fronte alla tragedia un eccesso di strumentalizzazione politica è inaccettabile. Guardiamo le cose che possiamo e dobbiamo fare. Ora tocca rimuovere le ragioni di questi drammatici eventi. Vedremo chi sarà coerente rispetto alle grida di dolore che la politica oggi sta lanciando a piene mani. Vedremo chi vorrà fare fino in fondo e sul serio un intervento con sufficienti risorse per risanare il territorio del nostro splendido paese».
A lei non piace essere definito, alla stregua del suo amico Gianni Letta, l’eminenza grigia del Pd. D’accordo, però sul suo telefono continuano ad arrivare chiamate di esponenti di peso di ogni partito, da destra a sinistra. Qual è il segreto della sua centralità nelle interlocuzioni tra i partiti, centralità che torna a manifestarsi, puntualmente, nei momenti cruciali della politica?
«La mia libertà. La voglia di ascoltare. La ricerca delle parti di verità che ci sono nelle ragioni dell’altro. La predisposizione a mettere da parte i miei destini personali, per arrivare alle scelte politiche migliori e vincenti. Mi danno un enorme dispiacere coloro che mi dipingono come un uomo di potere che agisce dietro le quinte. Ho fatto tutto e sempre alla luce del sole. Per il bene della sinistra e del mio partito. Ho fatto anche tanti errori, ma, francamente, sono molti più i successi ai quali ho contribuito».
Di quali va più fiero?
«Mi mette un po’ in imbarazzo. Come giovanissimo segretario del Pci di Roma, la lotta al potere di Sbardella, e poi la stagione magnifica del governo della città con Rutelli e Veltroni, la costruzione dell’Auditorium e la fondazione della Festa del cinema, il contributo alla nascita del Pd, le proposte vincenti di Marrazzo alla Regione e di Marino a Roma. Con esiti, successivamente, per diverse ragioni, problematici, sui quali non ho avuto alcun ruolo. L’avvento a segretario del Pd di Zingaretti, che ha riacceso una speranza nel nostro popolo. La costituzione del governo Conte II e il sostegno a quella esperienza, distrutta consapevolmente dal voltafaccia di Renzi. Mi fermo qui. Altrimenti mi sbrodolo. Ma sono contento di averli potuti ricordare, perché alcuni mi addebitano sconfitte, di cui non sono responsabile. Detto questo, non sono affatto certo di essere stato all’altezza delle sfide di fondo che la sinistra si è trovata di fronte dopo il crollo del muro di Berlino. È il dramma di tutta la mia generazione. Non aver fatto quello che i dirigenti che sono venuti prima di noi, sono riusciti a fare: la costruzione progressiva della democrazia italiana e l’avanzamento delle classi popolari».
Ultima domanda: sarà prima Bettini a lasciare la politica o sarà la politica a lasciare Bettini?
«Sarà la politica a lasciarmi, quando trapasserò a miglior vita».
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