L'analista Ispi Giorgio Fruscione ricostruisce con Open la crisi rientrata tra Belgrado e Pristina: «Possibile riconoscimento reciproco nei prossimi mesi. L'Italia spinga per l'integrazione Ue dei Balcani»
Via le barricate nel nord del Kosovo, riaperto il valico di frontiera con la Serbia. Sembra finalmente sciogliersi la tensione montata nelle ultime settimane tra Belgrado e Pristina attorno al ruolo della minoranza serba nel nord del Kosovo, giunta al picco all’inizio di questa settimana con l’annuncio minaccioso del governo di Belgrado di aver predisposto l’esercito «al massimo livello di preparazione al combattimento». Il segnale della retromarcia sulla linea dello scontro è arrivato nella tarda serata di ieri dal presidente serbo, Alexsandar Vucic, che dopo aver incontrato i rappresentanti della minoranza di connazionali in Kosovo ha annunciato il via libera allo smantellamento delle barricate da loro erette. Operazione in corso in queste ore, secondo quanto confermano le agenzie di stampa. Il Kosovo, per tutta risposta, ha riaperto il valico di Merdare, principale passaggio di frontiera tra i due Paesi chiuso dalle autorità soltanto ieri. Due segnali concreti salutati con soddisfazione dall’Alto rappresentante Ue per la politica estera Josep Borrell, che ha parlato di «successo della diplomazia» e di «grande lavoro di squadra di Ue, Usa e Nato», ringraziando i leader dei due Paesi. E che potrebbero preludere ad un percorso di riavvicinamento ben più solido tra Serbia e Kosovo nei prossimi mesi, fino anche al possibile riconoscimento reciproco, quanto meno di fatto, inseguito da 15 anni – sostiene in quest’intervista a Open Giorgio Fruscione, analista dell’Istituto di studi di politica internazionale (Ispi) ed esperto di Balcani.
Neppure 72 ore fa il governo serbo annunciava la mobilitazione dell’esercito «al massimo livello di prontezza per i combattimenti». Oggi si smantellano le barricate e l’Ue brinda al successo della diplomazia. Che succede tra Belgrado e Pristina?
Succede che due fatti nuovi hanno consentito di far sgonfiare la tensione accumulatasi da settimane. Da un lato il comunicato congiunto Ue-Usa ha accolto una richiesta chiave di Belgrado, quella di garantire l’immunità ai serbi del Kosovo che hanno eretto le barricate, annoverandole come proteste pacifiche. Dall’altra – è plausibile ipotizzare sulla scorta della pressione internazionale – la magistratura kosovara ha deciso di rilasciare l’ex agente serbo Dejan Pantic, il cui arresto aveva dato inizio alle barricate, concedendogli i domiciliari. E così la tensione è scemata tanto rapidamente quanto era montata – una caratteristica tipica delle crisi cicliche tra Serbia e Kosovo.
Fattori sufficienti per pensare che la tregua possa riportare Serbia e Kosovo al dialogo, o solo per un rinvio della tensione alla prossima scaramuccia?
C’è un elemento che è passato a prima vista inosservato nel comunicato congiunto diramato ieri da Ue e Usa, ma che potrebbe fornire una chiave per leggere i prossimi possibili passi. A chiusura della nota, Bruxelles e Washington raccomandano che «tutte le disposizioni del Dialogo siano applicate senza indugio». Il riferimento è al Dialogo politico formale tra Pristina e Belgrado, e in particolare all’istituzione dell’Associazione delle municipalità serbe, entità prevista dagli Accordi di Bruxelles del 2013 e mai realmente creata, e che potrebbe condurre alla tanto agognata normalizzazione dei rapporti.
Di che si tratta?
Di un’entità politico-amministrativa che dovrebbe riunire e rappresentare i Comuni a maggioranza serba del nord del Kosovo, dando loro legittimazione. Sinora le autorità di Pristina ne hanno bloccato di fatto l’istituzione, prevista dagli Accordi del 2013, nel timore che l’Associazione possa trasformarsi nel tempo in uno «Stato nello Stato» – sul modello della repubblica serba di Bosnia-Erzegovina – e preludere ad una secessione. Ma ora Usa e Ue sconfessano di fatto questa tesi e chiedono di procedere alla sua creazione, accogliendo una richiesta chiave di Belgrado.
Perché questo passo sarebbe così significativo?
Perché la creazione di quest’Associazione potrebb’essere un passo in direzione di un’intesa più ampia nei prossimi mesi. Il ragionamento implicito della diplomazia occidentale sarebbe in sostanza quello di concedere una vittoria al partner più riottoso, la Serbia, in cambio dell’impegno ad un accordo di più ampio respiro nei prossimi mesi.
Ossia del riconoscimento del Kosovo, negato strenuamente dal 2008?
Certamente di un accordo complessivo sul rapporto con Pristina che integri o sostituisca gli Accordi di Bruxelles del 2013: verosimilmente in direzione non di un riconoscimento esplicito del Kosovo, ma di fatto. Sui tavoli delle diplomazie c’è da qualche mese una proposta franco-tedesca, supportata dall’Ue, sui cui dettagli vige il riserbo più assoluto. Si pensa però che possa prevedere un reciproco riconoscimento indiretto: si parlerebbe di riconoscimento dell’inviolabilità dei confini e di scambio di rappresentanze permanenti tra le due parti. Non si riconoscerebbe formalmente il Kosovo insomma, ma la sua realtà di fatto sì. Almeno in un primo momento. Se questa è la strada, si spiegherebbe a ritroso anche la prova di forza messa in scena negli ultimi giorni da Belgrado: il governo serbo ha bisogno di mostrare alla sua opinione pubblica interna di saper mostrare i muscoli a tutela dell’interesse nazionale, prima di sedersi al tavolo a firmare un’intesa potenzialmente “dolorosa” da digerire internamente.
Ciò dimostrerebbe, visto dal lato occidentale, che l’Unione europea può contare su leve tutt’altro che spuntate per portare i partner della regione sulla strada desiderata.
Certo, a patto che sia pronta e determinata ad utilizzarle. Al contrario della tanto menzionata Russia, che sul piano degli scambi è un partner solo di terza o quarta fascia, la Serbia non può fare a meno dal punto di vista commerciale dei Paesi Ue, con l’Italia tra i Paesi più rilevanti. E anche sul piano diplomatico, la promessa dell’accelerazione del percorso di adesione all’Ue funziona eccome come “carota” per spingere alla normalizzazione dei rapporti con Pristina. Piuttosto, per farsi trovare pronta al prossimo appuntamento, l’Ue dovrebbe risolvere il suo paradosso interno, considerato che ancora 5 dei suoi stessi Paesi membri non riconoscono il Kosovo. Sarebbe imbarazzante se a un riconoscimento anche solo de facto arrivasse prima la Serbia della Spagna o di Cipro!
Quanto al piano prettamente politico, invece, la Russia ha soffiato oppure no sul fuoco di questa crisi?
Sul piano politico la Russia è certamente un alleato di prima fascia della Serbia, che conta su Mosca per tre “beni essenziali” di politica estera: il gas, il petrolio e il supporto sulla questione-Kosovo. Ma in questa come in tutte le altre crisi regionali sarebbe sbagliato interpretare il ruolo della Russia come protagonista. Mosca agisce piuttosto dalle retrovie, in maniera indiretta, sfruttando – questo sì – l’instabilità generata dalla tensione. È evidente che ne trae infatti benefici, perché essa rallenta di fatto l’integrazione euro-atlantica della regione, e perché è un altro focolaio nel cortile di casa che impensierisce l’Ue.
Pur nel nostro immediato, di cortile di casa, l’Italia appare cronicamente disattenta a quanto accade nei Balcani. Il nuovo ministro degli Esteri Antonio Tajani ha detto però di recente di voler invertire questa tendenza. In che modo potrebbe aiutare concretamente a consolidare la stabilizzazione della regione?
Il ministero degli Esteri italiano in questi pochi mesi di nuova guida si è speso molto, almeno a parole, sui Balcani: nelle intenzioni pare occupare uno spazio rilevante. Sia Tajani che il ministro della Difesa Crosetto sono volati a Belgrado e Pristina a fine novembre per tentare di mediare sulla cosiddetta «guerra delle targhe», poi rientrata. In prospettiva, è difficile immaginare un ruolo significativo dell’Italia sul piano dei rapporti bilaterali, ma sarebbe invece consigliabile che Roma si facesse promotrice all’interno dell’Ue di una rinnovata sinergia tra coloro che spingono per l’integrazione dei Balcani nell’Unione. Il che è tutt’altro che scontato – basti pensare al freno a mano tirato recentemente dalla Francia sul processo di allargamento. L’impegno dell’Italia sarà tanto più efficace quanto più sarà canalizzato all’interno di uno sforzo d’insieme per la stabilizzazione dell’intera regione.
Foto di copertina: EPA/STR
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