Doping nel calcio, parla Lamberto Boranga: «Ho visto colleghi prendere valanghe di Micoren e preparatori atletici muoversi come santoni» – L’intervista
Sono passati 57 anni dal suo primo esordio in Serie A, quando nel campionato 1966-1967 Lamberto Boranga scende in campo per difendere la porta della Fiorentina. Da lì una carriera da fuoriclasse. Del calcio ne ha viste e sentite tante, come giocatore prima e come medico poi, (mentre faceva il portiere studiava anche in università). Oggi torna indietro con la memoria provando a dare un’ulteriore testimonianza alla questione doping nel calcio, riaperta nel modo più drammatico dopo la morte di Gianluca Vialli, e a possibili collegamenti con patologie gravi. Gli ultimi timori sono stati quelli di Marco Tardelli: insieme a Dino Baggio, Massimo Brambati, Florin Răducioiu e ancora Claudio Lotito, si chiede se tutti quei farmaci presi in modo costante e spesso senza controlli, durante una straordinaria carriera, possano ora essere un rischio concreto all’insorgere delle stesse malattie che negli ultimi anni hanno portato al decesso molti dei suoi colleghi. Specialista in cardiologia, in medicina dello sport e in medicina interna, Lamberto Boranga è in grado di parlare dell’argomento sul doppio binario di chi è stato atleta prima e medico poi, tuttora punto di riferimento per molti pazienti.
Boranga, lei ha giocato nel periodo subito prima dell’epoca Vialli, si è scontrato diverse volte con Marco Tardelli, ha vissuto epoche di passaggio importanti per la medicina sportiva e l’antidoping. Ricorda di abusi di farmaci oppure no?
«Ai nostri tempi si prendevano in continuazione pasticchine e pasticcone. Era normale che il medico le prescrivesse: molte aumentavano la concentrazione durante la partita, la voglia di giocare, la spinta per correre. Tutto questo a un portiere come me specialmente faceva benissimo. Ma non sto parlando ancora di anabolizzanti, era il periodo poco prima».
Cosa si prendeva quindi? Il Micoren spesso citato dai suoi colleghi?
«Il Micoren era tra i più usati. Si tratta di un analettico respiratorio, in grado appunto di aumentare l’atto respiratorio: se normalmente si prendono tre litri d’aria a respiro, con il Micoren si riesce a prenderne un po’ di più, aumentando così la resistenza. Ma il vero problema è quanto si sceglieva di acquisirne: alcuni giocatori prendevano anche 10 pasticche tutte insieme. Sta lì il punto. Se fai una terapia con l’aspirina e ne prendi un grammo, non subisci conseguenze, non avrai emorragie gastriche e cose simili, se ne prendi dieci sarà invece molto probabile. Di Micoren c’erano anche le gocce, se ne mettevano 10 sulla zolletta di zucchero. Il problema anche lì e che molti calciatori ne prendevano oltre 20 e 30. Quando giocavo a Brescia ho visto compagni che ne prendevano una valanga. Un utilizzo smodato che può avere effetti nocivi anche dal punto di vista epatico e del pancreas».
Qual era il meccanismo dietro il sistema dei sovradosaggi? Era il medico che consigliava? Il calciatore che ne abusava?
«Alla base c’era l’incapacità del medico di tenere sotto controllo la situazione. Poi erano gli stessi calciatori che una volta percepiti gli effetti positivi di dosaggi standard sceglievano di prendere quantità del tutto arbitrarie e non certo al ribasso. Il medico viene nello spogliatoio, ti dice “questo ti fa bene”, tu sei spesso ignorante, non hai un approccio di verifica anche delle controindicazioni e quindi assumi fin quanto pensi ti faccia bene. Ma in molti casi c’è da dire che erano i preparatori atletici il reale problema».
Erano loro a spingere sui sovradosaggi?
«Si ergevano a medici, aggirandosi nelle squadre quasi come santoni: «Questo fa bene, prendine un po’ di più». Quando negli anni ’80 sono arrivati gli anabolizzanti è stato peggio. Ho assistito a diverse positività. Ai tempi era l’atletica la regina degli anabolizzanti, i medici della disciplina, insieme anche a quelli del ciclismo, portarono poi il meccanismo anche nel calcio. I preparatori atletici ne hanno approfittato più di tutti».
E le società in tutto questo?
«Spesso erano le prime a spingere affinché venisse dato “qualcosina” agli atleti. “Questi ragazzi li vedo un po’ spenti, diamogli qualcosa“, era una delle frasi più tipiche. Un ragionamento banale direi ma purtroppo alla base della distribuzione dei farmaci».
A proposito di farmaci, ricorda solo il Micoren?
«Lo stesso meccanismo riguardava anche la creatina: se è accertato che 3 grammi al giorno migliorano l’attività muscolare, 20 grammi cominciano a fare lo stesso effetto di un anabolizzante. Poi negli anni ’80, più o meno anche negli anni stessi di Vialli, arrivarono i corticosteroidi, molto usati: un gruppo di ormoni steroidei sintetizzati nella corteccia del surrene, diventati doping soltanto tempo dopo. Sono farmaci che attivano anche la parte del fegato e del pancreas. Il cortisone è un antinfiammatorio potente, che si somministra in maniera intra- articolare senza grossi effetti nocivi. Ma se si somministra intra-muscolo, come spesso succedeva, entra in circolo in maniera molto più pervasiva. Senza dimenticare il problema delle quantità».
Lei che rapporto aveva con i farmaci?
«Il Micoren è stato dato anche a me, c’erano poi soluzioni di cortisone e aspirina in vena che ti rimettevano al mondo, e poi usavo prendere anche una pasticchina di una sostanza simile all’anfetamina chimica».
Simile all’anfetamina in che senso?
«La base chimica credo fosse pemolina. La prendevo perché dovevo stare concentrato. Quando l’hanno considerata doping ho smesso di prenderla»
Non ha mai avuto paura per gli usi dei farmaci che ha fatto?
«Sono arrivato a 80 anni. E i dosaggi da prescrizione a cui mi sono attenuto non mi hanno dato mai motivo di temere. Certo se fossi stato sconsiderato nei dosaggi forse qualche rischio, soprattutto nel dopo carriera, lo avrei corso».
Non ha ecceduto nemmeno una volta?
«Con la pemolina sì, ricordo che dovevo dare un esame in università, nel periodo in cui giocavo ancora. Mi serviva molta concentrazione. Quella volta mi sono bombardato nella maniera più sbagliata. Dopo poco ho percepito una tachicardia molto forte, ricordo di aver raggiunto la stanza di mio fratello medico a carponi. Ma il mio è stato un errore del tutto sporadico. Se fatto in modo costante certamente i danni rischiano di essere altri. L’abuso di sostanze è nocivo e chi l’ha fatto non può escludere conseguenze. Anche se mi permetta di ricordare che molti dei calciatori che smettono di giocare terminano anche di condurre una vita sana in fatto di alimentazione, allenamento e riposo. Fumo, cibo cattivo e vita sregolata non possono essere elementi da trascurare quando parliamo soprattutto di tumori».
Nel 1977 Renato Curi morì a soli 24 anni, tra i più giovani ad essere morto in campo. Cosa ricorda di quel giorno?
«Era il 30 ottobre, giorno del mio compleanno. Allora ero consigliere dell’associazione italiana calciatori. Renato morì a Perugia, io giocavo a Palermo con il Varese. Salivo le scali del pullman dopo uno 0-0 e mi dissero “Curi è morto”».
Cosa si disse negli ambienti interni della morte improvvisa?
«Non si fece minima menzione al doping o all’uso di farmaci. Il collegamento fu sùbito con la sua malattia del cuore di tipo reumatica. Sta di fatto però che la diagnosi post mortem non si ebbe, Curi non ebbe neanche l’autopsia».
C’erano giocatori più sottoposti di altri agli “aiutini”?
«Le rose erano ristrette, quindi si faceva fatica a sostituire un giocatore fondamentale: si doveva portare in campo in tutte le maniere. Una problematica che ricordo di aver subito anch’io in prima persona».
Oltre al collegamento con i tumori, anche quello con la Sla è al centro di sospetti. Il presidente dell’Istituto Mario Negri, Silvio Garattini, ha parlato della necessità di un maxi studio denunciando anche poca disponibilità da parte della Figc a collaborare. Timore?
«Non credo sia una questione di omertà, piuttosto di altre priorità, quelle economiche in primis …. Sulla Sla credo che l’abuso di antinfiammatori tra i calciatori abbia avuto un grosso peso, oltre che agli allenamenti eccessivi, un altro grande tema. Ho sempre assistito a carichi di lavoro troppi pesanti, e tuttora i preparatori atletici devono capire che ci vuole equilibrio e riposo per garantire il buono stato di salute del giocatore: tre partite la settimana non vanno bene. Bisogna agire con un minimo di buon senso se vogliamo preservare le persone anche quando smettono di giocare, perché poi i maggiori problemi arrivano a quel punto».
Da quello che ha raccontato finora, il confine tra farmacologia e doping è stato spesso troppo sottile. Ai giocatori, o aspiranti tali, che consigli dà?
«Oggi rispetto alla questione farmaci credo che i calciatori siano più intelligenti, che prendano cose con più consapevolezza e neanche tanto volentieri. A chi ha cominciato da poco dico: prendete vitamine in dosaggi di prescrizione, garantitevi un riposo e una sana alimentazione. La tecnica si impara con l’allenamento e non con le medicine».
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