In Evidenza Benjamin NetanyahuDonald TrumpGoverno Meloni
ATTUALITÀBambiniGravidanzaInchiesteLazioMaternitàOmicidiOmicidi colposiRomaSanità

Rooming-in: ottima idea, pessima applicazione. Ecco cosa succede nei reparti maternità italiani

Il caso del neonato morto all'ospedale Pertini di Roma ha riacceso i fari sul trattamento riservato alle donne negli ospedali italiani durante e dopo il parto

Lo scorso 7 gennaio all’ospedale Pertini di Roma, un neonato di tre giorni è morto tra le braccia della madre che lo stava allattando. La tragica notizia, diffusa negli ultimi giorni, ha riacceso i fari sul cosiddetto «rooming-in», ovvero la pratica che permette alla madre e al bambino di restare insieme 24 ore su 24 durante la permanenza in ospedale. L’argomento ha dimostrato di essere tanto caldo quanto divisivo: mentre molti sottolineano i benefici di un’intimità tra madre e figlio sin dai primi momenti di vita, diverse donne hanno raccontato di aver vissuto un’esperienza traumatica, fatta di disservizi e abbandono. Come evitare un drammatico epilogo come quello avvenuto tra i corridoi del Pertini? Come offrire adeguate cure e attenzioni alle donne anche dopo la gravidanza? E quali ripercussioni, fisiche e psicologiche, ha sulle neo-mamme la mancata assistenza? Abbiamo provato a capirlo.

«Non solo operatori sanitari»

Il rooming-in si differenzia dal co-sleeping perché la seconda pratica prevede la condivisione del letto tra la mamma e il nascituro. Una scelta che «non va demonizzata né criminalizzata, ma scoraggiata», spiega a Open Riccardo D’Avanzo, Presidente della Commissione Allattamento e Banche del Latte Umano Donato della Società Italiana di Neonatologia (SIN). Il rooming-in, al contrario, viene solitamente promosso: «Gli studi scientifici ci mostrano la bontà della pratica, che è diventata comune in gran parte degli ospedali. Il rooming-in rappresenta l’opportunità di facilitare la relazione tra mamma e bambino e per evidenziare eventuali difficoltà che la mamma incontra, offrendole aiuto per superarle. Oggi dovrebbe essere uno standard di assistenza», spiega ancora D’Avanzo. A patto però che vengano rispettate alcune condizioni. Prima di tutto bisogna «avere delle aspettative corrette su cos’è il rooming in, come gestirlo, come viverlo. E dunque informare le donne in maniera appropriata, non terrorizzarle: poi sta a loro decidere, ma con la consapevolezza dei rischi».

In secondo luogo si deve puntare su un’assistenza individualizzata: sembra scontato dirlo, ma una donna in ospedale «non dovrebbe essere lasciata a se stessa». La responsabilità, però, non deve ricadere solo sugli operatori sanitari: «Ci deve essere il personale, ma anche i familiari. Il papà, le donne della famiglia, devono avere la possibilità di assistere la neo-mamma». E questa possibilità viene solitamente concessa? «Nel corso della pandemia questo è stato un grosso problema: molti ospedali hanno ancora politiche di accesso ai pazienti ormai superate, che oggigiorno non hanno più senso, a differenza di due anni fa. C’è un’inerzia in questo. Bisogna tornare a garantire l’accesso dei partner e dei familiari negli ospedali, perché la sua inibizione non trova ormai una giustificazione epidemiologica».

Turni massacranti, pressione, emergenze: la quotidianità in reparto

Tornare ad agevolare la presenza di familiari che possano fornire assistenza alle pazienti è urgente anche e soprattutto alla luce della carenza di personale sanitario, da molte voci denunciata. «In diversi punti nascita non vengono rispettati i rapporti ostetrica-paziente, o infermiere-paziente. E la carenza dell’organico influisce sulla qualità del servizio», spiega a Open Fausta Pileri, infermiera coordinatrice in sala parto e ostetricia della Aou di Sassari e membro della direzione nazionale Nursind (il Sindacato delle Professioni Infermieristiche).« Se ci sono 30 pazienti in un reparto, a ogni turno dovrebbero esserci 5 infermieri ostetriche. Invece in media non si superano le 3-4 unità. In trent’anni di tagli alla sanità abbiamo acquisito una dote di ubiquità non indifferente, ma resta il fatto che così ciascuno si ritrova a fare il lavoro di una persona e mezzo», prosegue Pileri. E non parliamo di attività particolarmente rilassanti: «Capita spesso che gli operatori siano costretti a rivolgersi allo psicologo aziendale dopo aver assistito ai decessi o alle sofferenze dei pazienti. Nonostante la professionalità, siamo comunque umani. Ma capita ancora più spesso che il carico emotivo, già di per sé opprimente, non riesca ad essere metabolizzato correttamente per via dei turni incalzanti».

Anche la pressione dei ritmi di lavoro gioca un ruolo centrale: «Capita a volte, per esempio nel caso di un’emergenza ostetrica classica, di dover effettuare un cesareo di emergenza. In quel caso l’operazione deve avvenire in pochi secondi, pena la morte della madre o del bambino. Ci ritroviamo così ad armeggiare con una mano, e con l’altra a passare gli strumenti al chirurgo. Questo è lo stress che dobbiamo affrontare quotidianamente». Nell’impossibilità di seguire accuratamente ciascun paziente, ci si trova costretti a fare una selezione: «Abbiamo a che fare anche con pazienti urgenti, sanguinanti, minacce d’aborto, di parto prematuro, un distacco di placenta da valutare, bambini magari non del tutto sani… e purtroppo hanno la priorità, a discapito della donna che magari aveva un “semplice” dolore, che non ha avuto una risposta al suo bisogno tempestiva come dovrebbe avere. E per me è una sconfitta».

Cosa rischiano le donne

Un quadro che trova riscontro anche nelle parole di Mary Limiti, ostetrica che collabora con l’Associazione Melograno, che opera dal 1983 nel campo dell’informazione e del sostegno durante la gravidanza, il parto, il puerperio e la prima infanzia. A Open Limiti racconta: «Avere tempo di seguire una poppata significa avere almeno una mezz’ora abbondante da dedicare a ciascuna donna: e non sembra praticabile. E questo vale anche per l’assistenza al parto». Una posizione vicina a quella di Margherita Fioruzzi, co-fondatrice dall’associazione Mama Chat, che conta oltre 70 professionisti tra psicologi, psicoterapeuti ed esperti di salute della donna: «Noi sappiamo che c’è un problema di mancanza di regole sul territorio, come se ci fossero parti di serie a e parti di serie b. Se hai a disposizione soldi e sei economicamente avvantaggiata e vai nelle strutture private vieni seguita. Se sei costretta a rivolgerti agli ospedali pubblici, puoi ritrovarti senza assistenza, senza controlli. L’omissione di assistenza, la mancanza totale di cura, soprattutto quando la donna non ha un partner o un accompagnatore, è un fenomeno tanto diffuso quanto rischioso».

Perché una donna che viene abbandonata dopo aver dato alla luce il suo bambino, spiega ancora Fioruzzi, deve fare i conti con diversi effetti psicologici potenzialmente rischiosi: depressione post-partum, traumi, attacchi di panico, problemi di ansia, conseguenze sulle relazioni di coppia e con il bambino, e dunque ripercussioni anche sul neonato. È difficile quantificare il fenomeno: «Solo il 21% delle mamme ed è registrata come vittima di violenza ostetrica», afferma Fioruzzi. «Ma la percezione è che siano molte le donne che non denunciano o non sono consapevoli di aver subito abusi al momento del parto o nel post-parto».

Il delicato tema della violenza ostetrica

Il concetto di violenza ostetrica, puntualizza Antonella, è difficile da definire: «Molti gesti, in una fase così delicata, possono essere interpretati come violenti. Si può trattare di una mano sul seno, una visita eseguita senza permesso, fino ad arrivare a manovre invasive durante il parto senza consenso o anestesia, o anche insulti. La violenza ostetrica non è fatta solo da ostetriche, ma da chiunque che entra in contatto con la donna e la sua famiglia: medici, infermieri…». Il fenomeno non si riesce dunque a racchiudere in una formula univoca, ma nonostante questo si manifesta e si percepisce. Tanto che Antonella racconta a Open di aver scelto di lavorare come libera professionista, aprendo la sua partita Iva, proprio a causa della violenza ostetrica che ha visto negli ospedali.

E proprio contro questo fenomeno è stata lanciata una petizione dall’associazione Mama Chat, dal nome Basta morti inutili e mamme sole! Chiediamo di garantire accompagnatori H24 alla nascita. Che in meno di 24 ore ha raccolto oltre 50mila firme. E non solo: «Dopo il lancio della petizione abbiamo ricevuto centinaia di testimonianze. L’assenza di servizi, più che l’eccezione, è la norma», spiega a Open Fioruzzi. «E forse – conclude – il caso di questa donna a Roma, delle sue richieste inascoltate di poter riposare, dell’abbandono subìto dopo 17 ore di travaglio, ha attirato così tanto l’attenzione nel dibattito pubblico perché tantissime donne hanno pensato: ‘poteva succedere a me’».

Leggi anche:

Articoli di ATTUALITÀ più letti