Tutti i rischi per l’Italia con la scure sulle auto a benzina e diesel nel 2035
La rivoluzione dell’automotive. L’addio dell’Europa ad auto e furgoni nuovi a benzina e diesel dal 2035, su decisione del Parlamento europeo che ieri ha approvato la messa al bando definitiva della vendita di veicoli a motore termico, è diventato ormai indiscutibile. «Abbiamo raggiunto un accordo storico, che riconcilia l’automobile e il clima, due fratelli nemici», ha affermato l’eurodeputata verde francese Karma Delli, presidente della commissione Trasporti. Nel frattempo, è la stessa Commissione europea a spingersi ancora più in là con una nuova proposta che impatterà anche sugli autobus. Questi ultimi dovranno, infatti, essere a emissioni zeri a partire dal 2030. Di fatto, autocarri, pullman a lunga percorrenza e rimorchi dovranno tagliare del 90% la CO2 emessa entro il 2040.
Servono incentivi e infrastrutture per raggiungere i target europei
L’obiettivo, in sintesi, è portare il Vecchio Continente verso l’obiettivo zero emissioni nel 2050. Per il direttore generale dell’Associazione europea dei costruttori di automobili, Sigrid de Vries, «la nostra industria è pronta a raccogliere la sfida di fornire veicoli a emissioni zero». Esenti dai nuovi obiettivi, da negoziare tra Parlamento e Consiglio, saranno invece i veicoli particolari. Quelli utilizzati nell’agricoltura, nonché nelle miniere, dalle forze armate e dalle forze dell’ordine. A questi bisognerà poi aggiungere le ambulanze e i camion preposti alla raccolta dei rifiuti. Ma qual è il “costo” da pagare per le aziende? A lanciare l’allarme sono le imprese che producono componentistica Made in Italy che da mesi chiedono all’Europa, spiega il Sole 24 Ore, di rispettare il cosiddetto principio della neutralità tecnologica e mettono in guarda dai rischi di una transizione fin troppo netta che per certi versi può rappresentare una minaccia per una parte dell’indotto italiano.
L’allarme delle aziende
Secondo l’Anfia (Associazione Nazionale Filiera Industria Automobilistica), sono circa 450 le imprese che lavorano sui motori endotermici, con almeno – scrive il quotidiano economico-finanziario – un terzo delle esportazioni del comparto rappresentate da motori o componenti dei sistemi di trazione. «Il mondo dei produttori e dei componentisti legati ai veicoli industriali è davvero molto preoccupato per i target più che sfidanti che l’Europa sta ponendo», sottolinea Gianmarco Gorda, direttore di Anfia secondo il quale sarà molto difficile «sviluppare soluzioni tecnologiche alternative, capaci di garantire un dimezzamento delle emissioni entro sette anni». Secondo gli industriali, due sono le condizioni fondamentali per raggiungere i target europei: incentivi e infrastrutture di ricarica capillari per garantire un utilizzo fluido dei mezzi con potenze adeguate che permettano di ricaricare il mezzo in tempi brevi.
I possibili rischi
Bene invece, sia per Anfia ma anche per Clepa, associazione dei componenti europei, che al 2040 si lasci una porta aperta allo sviluppo di nuove tecnologie per il motore endotermico. Per quanto riguarda, invece, la partita dello stop alle nuove immatricolazioni di auto inquinanti a partire dal 2035, per Anfia quello che è necessario è spingere sulla necessità di un Fondo europeo a sostegno della transizione. Mutilazione di una specializzazione (il diesel), cessione di sovranità tecnologica (di fatto, l’elettrico alla Cina) e desertificazione industriale. Sono questi i rischi possibili a cui si potrebbe far fronte dopo l’addio dell’Europa ad auto e furgoni nuovi a benzina e diesel dal 2035: lo scrive in un’analisi sul Sole 24 Ore, Paolo Bricco secondo il quale il contesto europeo nasce dall’innestarsi due fenomeni in particolare: il «dieselgate tedesco» e «l’ecologismo radicale».
Il dieselgate e l’ecologismo
Il primo ha oscurato ogni possibilità di miglioramento nell’impatto ambientale dei carburanti tradizionali. Il secondo ha fatto sì che il “dogma” dell’ecologismo abbia ammantato di moralismo ogni discorso sulle nuove tecnologie. Non solo., Di fatto le auto elettriche sono in media più care rispetto quelle “tradizionali”. Questo, consente di chiedersi chi effettivamente siano i beneficiari delle misura. E poi ancora: la Francia e la Germania possono per certi versi finanziare le politiche industriali di transizione con più agio rispetto all’Italia. Perché hanno conti nazionali più in ordine. E possono, in sintesi, costruire imponenti piani di investimento sull’elettrico.
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