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Caso Rigopiano, la lettera dell’avvocato Caiazza contro Salvini: «Assoluzioni una vergogna? Un ministro dovrebbe difendere i giudici»

24 Febbraio 2023 - 20:18 Redazione
La risposta di Gian Maria Caiazza, tra i difensori nel processo sulla valanga che ha ucciso 29 persone, dopo che il ministro aveva definito inaccettabile la sentenza che ha assolto 25 imputati su 30

Dura replica del presidente delle Camere penali e difensore nel processo Rigopiano, Gian Domenico Caiazza, al post di Matteo Salvini in cui ha definito «una vergogna» la sentenza di ieri, 23 febbraio, sulla tragedia dell’Hotel travolto e distrutto da una valanga il 18 gennaio 2017. «29 morti, nessun colpevole (o quasi). Questa non è “giustizia”, questa è una vergogna. Tutta la mia vicinanza e la mia solidarietà ai famigliari delle vittime innocenti», aveva scritto su Instagram il leader della Lega dopo l’assoluzione di 25 imputati. I giudici ieri hanno condannato a due anni e otto mesi il sindaco di Farindola (Pescara), Ilario Lacchetta, e ha assolto invece l’ex prefetto di Pescara, Francesco Provolo e l’ex presidente della Provincia, Antonio Di Marco. Una decisione inaccettabile per il ministro Salvini che si unisce così alle contestazioni già emerse dopo la lettura della sentenza. Ma oggi, 23 febbraio, ci tiene a rispondere l’avvocato Caiazza che in una lunga lettera attacca il leader della Lega di «non sapere nulla» del caso Rigopiano. Se la prende con il fatto che Salvini dica che non ci sia stato alcun colpevole e ci tiene a evidenziare che si tratta di una falsità. Poi sulle assoluzioni commenta: «A nessuno viene in mente he un’accusa possa essere infondata (e che un innocente ne risulti maciullato nella sua vita professionale, nella sua dignità, nei suoi affetti)?». Infine, Caiazza conclude sottolineando che a suo avviso il ministro se la sarebbe dovuta prendere con chi ha attaccato il giudice con insulti e non con la magistratura.

La lettera a Salvini dell’avvocato Gian Domenico Caiazza sul caso Rigopiano

Signor Ministro on. Matteo Salvini,
mi permetto di scriverLe nella veste di avvocato difensore di uno degli imputati – l’allora Prefetto di Pescara Francesco Provolo – assolto giovedì dal GUP di Pescara, perché profondamente colpito dal Suo immediato commento. «29 morti, nessun colpevole (o quasi). Questa non è giustizia, questa è una vergogna. Tutta la mia vicinanza e la mia solidarietà ai famigliari delle vittime innocenti».
Le parole sono pietre, ma quelle di un uomo pubblico, autorevole Ministro della Repubblica, sono macigni: se un Ministro parla e ragiona così -pensa tanta gente- è così che è legittimo parlare e ragionare.

Tralascio di considerare il fatto che Lei, di questo processo, non sappia nulla. Non perché non sarebbe di per sé decisivo, ma perché è ormai diventata una regola, alla quale dobbiamo evidentemente rassegnarci: dei processi si parla senza averne letto una sola pagina. Questa sì che è una vergogna, ma che dire? Pazienza, ormai la cosa funziona così.
Ma la lapidaria crudezza del suo giudizio mi sollecita alcune riflessioni, che mi permetto di rassegnarLe.

Innanzitutto, quel “tutti assolti, o quasi”, che costituirebbe la pietra dello scandalo. Dobbiamo dedurne – mi corregga se sbaglio – che, dati, per dire, 30 imputati, maggiore è il numero dei condannati, più saremo rassicurati che giustizia è stata fatta. All’inverso, più cresce il numero degli assolti, più cresce la vergogna. Un’idea, come dire, statistica della Giustizia. È una idea che trova proseliti, visto che leggo oggi sulla gran parte dei giornali che la vicenda si sarebbe conclusa senza individuazione di alcun responsabile; il che è semplicemente falso.

Lei comprende benissimo che questa stravagante (ed allarmante) idea ne presuppone un’altra, davvero spaventosa: e cioè che l’assoluzione dell’imputato sia il naufragio della giustizia, e la condanna il suo trionfo.

Occorre ammettere, signor Ministro, che è questa l’idea più in voga nella pubblica opinione, nei bar come sui social o nei talk-show televisivi. A nessuno viene in mente, nemmeno per un attimo, che un’accusa possa essere infondata (e che un innocente ne risulti maciullato nella sua vita professionale, nella sua dignità, nei suoi affetti): se ci sono degli imputati, devono esserci dei condannati. O almeno, se ho ben capito: “quasi tutti”. Insomma, posto che se ci sono delle vittime, devono esserci necessariamente dei colpevoli, una volta che una Procura della Repubblica li ha individuati in quegli imputati, questi sono automaticamente “i colpevoli”. Tutti. Siamo tutt’al più disposti a tollerare una percentuale lievissima di assolti, che andrà pur stabilita una volta per tutte, oltre la quale incombe “la vergogna”.

L’implicazione successiva di questo modo di ragionare, che è evidentemente il Suo signor Ministro, è che il buon giudice sia colui che fa proprie le idee della Pubblica Accusa. Il giudice sta lì non per valutare se l’Accusa sia fondata, ma per asseverarla incondizionatamente. Lei pensa questo, Ministro Salvini? Basta dirlo con chiarezza.

Se invece non è questo il suo pensiero (e glielo auguro di tutto cuore, anche perché Lei sta vivendo l’amaro calvario dell’imputato che rivendica la propria innocenza, sicché poi dovremmo capire, nel Suo caso, quale sarebbe la “vergogna” conclusiva della Sua vicenda, se l’assoluzione o la condanna), allora arriviamo al punto della questione. È legittimo esprimere opinioni su una sentenza almeno dopo averla letta, e certamente non a seconda del numero degli assolti e dei condannati.

Mi consenta un’ultima riflessione. Ieri, alla lettura della sentenza, l’aula di un Tribunale della Repubblica è stata profanata – questo è il termine esatto – da una indecente gazzarra di insulti furibondi e di minacce gravissime verso un giudice della Repubblica, rimasto con dignità e coraggio, in piedi nell’aula, a riceverli (“bastardo” “devi morire” “venduto” “fai schifo” “non finisce qui”, e anche di peggio). Un giudice che ha pronunziato una sentenza “in nome del popolo italiano”. A noi hanno insegnato che le aule di giustizia sono luoghi sacri. Indossiamo una toga per potervi mettere piede. Parliamo se e quando autorizzati dal giudice, vincolati ad un uso riguardoso e controllato delle parole. È stato uno spettacolo che ha umiliato, non quel magistrato, ma la Giustizia ed il prestigio della giurisdizione. Mi sbaglierò, ma io penso che se un Ministro della Repubblica sente di dover pubblicamente denunziare una vergogna, nel suo caso abbia scelto quella sbagliata.

Gian Domenico Caiazza

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