Il voto in Nigeria tra outsider e vecchie paure: ecco perché il futuro del Paese africano riguarda anche l’Italia
Il 25 febbraio gli oltre 90 milioni di elettori registrati della Nigeria, il Paese più popoloso dell’Africa e sua prima economia per dimensione del Pil, hanno votato per scegliere il prossimo presidente e rinnovare il parlamento. Nonostante – scrive Bloomberg – le votazioni siano state ritardate di diverse ore in molti seggi elettorali della Nigeria, la Commissione elettorale nazionale indipendente prevede «di proclamare il vincitore delle urne non prima del 27 febbraio». Chi riuscirà a ottenere il maggior numero di voti erediterà un paese chiamato ad affrontare «importanti sfide di carattere economico e sociale con la crisi finanziaria in corso, l’inflazione elevata, la crisi valutaria e un mercato del lavoro problematico», dice a Open Lucia Ragazzi, ricercatrice per il Programma Africa dell’ISPI. Ma non solo: il paese dovrà fare i conti anche con un’impennata di violenza e conflitti interni esacerbati da una società anche etnicamente frammentata. «Le sfide principali riguardano la corruzione, l’insicurezza ormai endemica dovuta agli estremisti come Boko Haram nel nord-est, al banditismo diffuso e a questioni etniche legate al controllo e lo sfruttamento delle risorse del territorio, ma anche la disattenzione verso i giovani», spiega invece Antonella Sinopoli, direttrice di Voci Globali con base in Ghana e corrispondente per Nigrizia.
Chi sono i candidati del post-Buhari?
In lizza per il dopo Muhammadu Buhari, che non può più presentarsi alle elezioni, avendo concluso i due mandati consentiti dalla Costituzione, ci sono ben 18 candidati. Solo tre, secondo i sondaggi, hanno davvero una possibilità di vincere. Si tratta del 70enne Bola Ahmed Tinubu, ex governatore dello stato nigeriano di Lagos, esponente del partito di governo All Progressives Congress (APC); il 76enne Atiku Abubakar, importante uomo d’affari ed ex funzionario statale, candidato per il principale partito di opposizione People’s Democratic Party (PDP). E, infine, l’outsider di queste elezioni: Peter Obi, esponente del Labour Party, che punta a scardinare l’equilibrio bi-partitico che esiste dalla nascita della (giovane) democrazia nigeriana nel 1999. Per diventare il presidente di uno dei Paesi economicamente e geopoliticamente più importanti dell’Africa, uno dei tre dovrà ottenere il maggior numero di voti a livello nazionale e più del 25% di quelli espressi in almeno due terzi dei 36 stati della Nigeria. Se nessuno ce la farà, ci sarà un ballottaggio tra i due primi classificati entro 21 giorni.
«Le elezioni in Nigeria – spiega Lucia Ragazzi di Ispi – sono state sempre contese tra due candidati: questa volta la particolarità è l’ingresso di un terzo partito nella competizione, quello di Obi: un candidato di rottura rispetto agli altri e che secondo alcuni sondaggi potrebbe anche vincere». Il candidato del partito laburista che piace anche (e soprattutto) ai giovani potrebbe «essere favorito dall’aspetto religioso», spiega la ricercatrice. Esiste, infatti, una consuetudine nelle elezioni nigeriane per spartirsi le cariche politiche – tra cui la presidenza – tra musulmani del nord e cristiani del sud. «Il presidente uscente Buhari – afferma Ragazzi – è musulmano del nord. Per cui secondo questo accordo non scritto uno si aspetterebbe un presidente cristiano del sud. Ma i candidati dei principali partiti sono entrambi musulmani (Tinubu del sud, Abubakar del nord, ndr). Mentre Obi è invece un cristiano del sud della Nigeria che ha scelto come vicepresidente un musulmano del nord».
È anche una questione europea
Gli effetti di una futura stabilità economica, sociale e democratica della prima economia dell’Africa «si ripercuoteranno inevitabilmente al di fuori del continente», dice Ragazzi. «Il colosso demografico ed economico è un polo di riferimento per i mercati internazionali» e gli osservatori mondiali hanno gli occhi puntati sulla Nigeria per via dell’influenza geopolitica del Paese ma anche, e soprattuto, per le sue grandi risorse energetiche che sono ambìte in un contesto di enorme incertezza. «L’Europa, compresa l’Italia, hanno bisogno più che mai delle risorse nigeriane: l’abbiamo visto con la guerra in Ucraina», spiega Sinopoli. «Ma hanno bisogno anche – continua – che questo Paese esca dalla morsa della violenza e dell’insicurezza. Perché alla fine la destabilizzazione non fa bene a nessuno».
Le relazioni tra Unione europea e Nigeria – nonostante «siano cominciate nel 1975, quando era CEE, con l’accordo di Lomé», spiega Antonella Sinopoli -, «si sono fatte più strette a partire dal 1999, con la democratizzazione del Paese» che ha messo fine a 16 anni consecutivi di governo militare. «Oggi, per fare un esempio, – continua – la Commissione europea ha in corso un programma iniziato nel 2021 e che terminerà nel 2024 con un investimento in Nigeria da 508 milioni di euro nel campo dell’economia sostenibile, della governance e dello sviluppo umano mirato a combattere le ineguaglianze». Tuttavia, la Nigeria non è un Paese che non ha dato nulla in cambio. «Pensiamo alle tante risorse naturali», dice Sinopoli, in particolare gas e petrolio. «L’Ue – spiega – è diventato il maggiore importatore di greggio, ma soprattutto di gas: in questo caso parliamo dell’80% dal Paese africano».
L’incognita petrolio
«La Nigeria è uno dei principali produttori di petrolio in Africa» e ha un potenziale di estrazione di circa 2 milioni di barili al giorno. Cifra, questa, che ha visto una sostanziale diminuzione nel tempo fino a raggiungere numeri che vanno da 1,2 milioni a 1,3. Nell’ultimo anno, però, il gigante africano non è riuscito a sfruttare economicamente l’aumento dei prezzi del greggio, né a rispettare le quote di produzione che le erano state assegnate dell’associazione dei paesi esportatori di petrolio (Opec). Le conseguenze di tale situazione sono da ricercare sia nel mancato ammodernamento delle infrastrutture, ma anche in seguito ai cosiddetti furti di carburante, rivenduto su mercati semi-clandestini, che costituiscono un problema in termini di approvvigionamento mondiale messo ulteriormente in crisi dall’invasione russa dell’Ucraina.
Ma non solo: la Nigeria non è in grado di raffinare il proprio petrolio per produrre carburante e, dunque, di sfruttare a pieno l’immensa ricchezza del suo territorio. Tutto questo, non incoraggia affatto gli investimenti delle multinazionali nel Paese, utili – se non indispensabili – per garantire una crescita degli introiti nazionali. Infine, le urne nel “gigante africano” si sono aperte in un contesto di crisi energetica globale, contrassegnata da una maggiore richiesta internazionale anche di gas. Il futuro del governo di Abuja è infatti sotto gli occhi degli osservatori europei anche dopo l’approvazione del memorandum d’intesa – firmato il 15 settembre scorso – relativo al «progetto di gasdotto Nigeria-Marocco» che rifornirà l’Africa occidentale e l’Europa e che indirizzerà – inevitabilmente – l’agenda della nuova presidenza.
E l’Italia?
«L’Italia dal canto suo ha la stessa convenienza e le stesse necessità nei confronti di questo Paese», dice Sinopoli. «Qui opera l’Italian trade Agency (Agenzia per la promozione all’estero e l’internazionalizzazione delle imprese italiane, ndr)». I rapporti commerciali sono «molto forti ed estesi». La Nigeria è infatti il principale partner commerciale dell’Italia nell’Africa sub-sahariana dopo il Sud Africa: «Esportiamo mobili, materiali da costruzione, tecnologia. Pensiamo solo che secondo il database comtrade della Nazioni Unite sul commercio internazionale le esportazioni dall’Italia sono state valutate a 1,89 miliardi di dollari. È un dato che risale al 2018 ma rende molto l’idea». E poi: «pensiamo all’Eni: la sua presenza nel Paese risale al 1962. Ultimamente la grande azienda petrolifera ha firmato nuovi contratti di esplorazione e produzione di GNL (gas naturale liquefatto, ndr), mentre non si sono mai fermate le estrazioni di petrolio». Basta pensare all’accordo di 8 miliardi siglato tra Italia e Libia, con l’obiettivo di aumentare la produzione di gas sia per soddisfare la domanda interna, sia per garantire l’esportazione verso l’Europa. Tuttavia, chiunque vincerà le elezioni presidenziali, però, «non modificherà – è convinta Sinopoli – gli accordi economici e di partnership, gli interesse sono strettamente legati e sono reciproci» e, dunque, non converrebbe a nessuna delle due parti in gioco.
«Non è un paese per vecchi»
Ma oltre che per le motivazioni economiche, l’Italia e in generale l’Europa intera, «dovrebbero stare attenti a quanto accade in Nigeria, per la sua popolazione giovanile», costretta molto spesso alla migrazione forzata a causa del contesto economico-sociale destabilizzante. Nel 2050, la Nigeria sarà il terzo Paese più popoloso al mondo: l’età media è di 18 anni e il 70% della popolazione è under 30. «Il Paese ha dunque – spiega Sinopoli – una delle popolazioni giovanili a livello globale, e questo deve rappresentare un’opportunità» per l’Europa intera. «Pensiamo ad esempio alle tante start up avviate in questi anni, al panorama artistico, cinematografico e letterario». Tuttavia, la realtà di questo Paese, così “sconosciuto” ai più, è abbastanza sconfortante e l’elettorato più giovane è quello per certi versi più colpito dai fallimenti del presidente uscente Muhammadu Buhari. «Secondo gli ultimi dati la Nigeria ha circa 90 milioni di giovani disoccupati».
Quindi, cosa faranno questi giovani? Dove andranno a finire tutte queste energie? «Se non saranno incanalate verso la costruzione del futuro del Paese, le alternative – dice a Open Sinopoli – non sono molte: oltre ad aumentare il numero della popolazione povera e disperata (oltre 40% vive ancora sotto la soglia di povertà), potrebbero aderire a uno dei gruppi jihadisti che in questi anni hanno preso possesso di alcune aree del Paese; ma soprattutto potrebbero essere costretti ad emigrare». La Nigeria è il paese da cui ha origine la maggiore diaspora africana: i nigeriani sono i più numerosi tra i gruppi africani che vivono nell’Unione europea, compresa l’Italia. Ma non solo: «La Nigeria – spiega Lucia Ragazzi di Ispi – è anche il primo Strato dell’Africa subsahariana da cui arrivano i migranti irregolari verso l’Ue».
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