Disordini alimentari, in Italia ne soffre un giovane su tre. L’allarme dei medici: «Oltre la metà delle regioni italiane non è in grado di curare i disturbi»
Un’emorragia che non si arresta. Così i medici italiani in prima linea nella cura dei disturbi alimentari tra i giovani descrivono i tratti di una emergenza sanitaria che non accenna a fermarsi. Gli ultimi dati diffusi da Jama Pediatric raccontando di una media globale di 1 giovane su 5 alle prese con disordini alimentari: uno scenario in cui l’Italia si classifica ben oltre il dato mondiale con 1 caso su 3. «Ho poco più di 20 anni ma il mio corpo è già anziano»; «Non è un capriccio ma voglia di scomparire», «Sto vivendo un incubo senza via d’uscita». Così pochi mesi fa fa Open raccontava le storie di una generazione costretta a soffrire in silenzio. Il reportage Anime Affamate sull’epidemia dei disturbi alimentari tra i più giovani ha fatto luce su volti nascosti, sofferenze senza voce, voragini di sostegno e assistenza che da ogni parte d’Italia continuavano a mietere vittime e alimentare un malessere cronico. Era il 15 marzo, giornata nazionale dedicata ai disturbi alimentari. A pochi giorni da una nuova data che richiama l’attenzione su una delle crisi più profonde della nuova generazione, e a tre anni di distanza dall’emergenza sanitaria che ha sconvolto il mondo, la domanda urgente da porre è su cosa sia davvero cambiato.
L’emorragia che non si ferma
Quello che è davvero cambiato nel giro di un solo anno è la gravità del problema. I dati riportati dal web documentario erano già allarmanti: la stima era di 3 milioni di malati, con un aumento del +30% tra i giovani rispetto al 2019, +50% di prime visite. E ancora: 3.000 decessi all’anno, con una incidenza che metteva i disturbi alimentari al secondo posto tra le cause di morte tra le nuove generazioni, soltanto dopo gli incidenti stradali. Senza contare l‘abbassamento dell’età media di insorgenza, il 30% della popolazione ammalata è sotto i 14 anni, con una maggiore diffusione nella popolazione maschile arrivata al 10% nella fascia tra i 12 e i 17 anni. Numeri tragici che hanno meritato ben pochi interventi. La revisione sistematica operata su scala mondiale e pubblicata di recente su Jama Pediatric, si è interrogata sull’attuale percentuale globale di disordini alimentari in bambini e adolescenti: il gruppo di trentadue studi con 63.181 soggetti coinvolti provenienti da 16 paesi differenti riporta una cifra pari al 22% totali. Per una media nel mondo di più di 1 giovane su 5 che soffre di disordini dell’alimentazione. C’è di più. Nel quadro globale l’Italia si posiziona oltre la media mondiale, registrando il dato di un 1 su 3.
«I sintomi diagnosticati a chi soffre di disturbi alimentari sono simili a quelli del disordine alimentare, accompagnati però da un livello più elevato di rigidità e angoscia, che può arrivare fino a una compromissione delle funzioni vitali», spiega la terapista americana Jennifer Rollin, fondatrice del centro The Eating Disorder, «i sintomi dei comportamenti alimentari disordinati possono progredire fino a trasformarsi in disturbi alimentari più gravi». A fare eco anche i medici italiani, impegnati da mesi ad arginare un’epidemia che non sembra arrestarsi: «È un’emorragia che non si ferma», spiega a Open il dottor Giuseppe Magistrale del Centro Dca di Bari, aggiornando su una richiesta «aumentata ancora di più nell’ultimo anno» e che sembra andare di pari passo a una diminuzione dell’età media dei giovani bisognosi d’aiuto. Una delle maggiori luminari italiane sul tema dei disturbi alimentari ha più volte ribadito a Open il reale problema dei decessi per Dca: «Si continua a morire per mancato accesso alle cure. La metà delle regioni italiane non hanno una rete completa di assistenza». Se i numeri sono cambiati, e in peggio, a che punto sono i servizi di cura?
«Si muore per mancato accesso alle cure»
«Sono realista più che scoraggiato, tutti quelli che dovevano essere gli impegni per ampliare la risposta di queste malattie sono stati disattesi. Siamo ancora qui. Non c’è nessuna conquista». A parlare è il fondatore della giornata nazionale dedicata ai disturbi alimentari e dell’Associazione “Mi nutro di vita”, Stefano Tavilla. Nominato nel 2021 Ufficiale dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana dal presidente Mattarella, si è battuto per l’inserimento dei Dca nei Livelli Essenziali di Assistenza delle sanità regionali. E cioè nell’insieme di tutte le prestazioni, servizi e attività che i cittadini hanno il diritto di ottenere dal Servizio sanitario nazionale in modo gratuito e uniforme in tutto il territorio nazionale. L’emendamento alla legge di bilancio del 2022 aveva esteso le prestazioni Lea dei disturbi alimentari, così come fatto anni prima con le malattie legate allo spettro autistico. «Da lì la Commissione dei Lea avrebbe dovuto approvare ufficialmente l’inserimento, come era stato promesso dall’allora sottosegretario alla Salute Pierpaolo Sileri. Ma nulla è più successo». Lo stanziamento di 25 milioni in due anni, «purtroppo briciole per l’enorme entità della richiesta», era stato il segnale di una possibile presa di coscienza su un’emergenza reale e a lungo inascoltata. Ma anche lì la burocrazia ha prevalso sulla priorità assistenziale: «Entro luglio 2022 le regioni avrebbero dovuto presentare dei progetti per ricevere i fondi, ancora adesso ci sono amministrazioni che non hanno un piano definito. Anche su un piccolo stanziamento come questo si è verificato un livello burocratico assurdo». Nel frattempo a non guardare burocrazia c’è la malattia di migliaia di giovani, stanchi ormai di chiedere aiuto.
Le lacune del monitoraggio
Un anno fa Anime Affamate aveva dato conto della prima mappa diffusa dall’Istituto Superiore di Sanità sulla rete di assistenza che il Paese è in grado di fornire a chi soffre di Dca. Una ricerca durata tre anni che però non ha coinvolto le associazioni sul campo, le principali realtà in grado di intercettare anche i casi più nascosti dei territori, e che non ha inserito alcune delle (poche) strutture più conosciute per la cura. La maggior parte dei centri elencanti sono ambulatori, soltanto il primo livello di assistenza per un disturbo alimentare che necessita di almeno altri tre tipi di strutture e competenze (dai centri diurni, al ricovero ospedaliero alle residenze di riabilitazione). E ancora, come spiegato dal ministero stesso: «La registrazione dei servizi nella piattaforma ha carattere volontario, pertanto quanto riportato potrebbe non essere esaustivo della realtà territoriale». In ogni caso anche il monitoraggio disponibile registra un livello assistenziale tutt’altro che accessibile a tutti e in egual modo: solo 4 regioni su 21 arrivano a più di cinque strutture di assistenza per i Dca. Una è addirittura sprovvista di ogni possibilità di cura.
«Sono stime da epidemia. La sanità pubblica dov’è?»
Da allora è cambiato molto poco. Come immobili sono anche i dati che il ministero è in grado di fornire sul numero esatto di bambini e adolescenti colpiti dal disturbo. «È troppo difficile dare un resoconto preciso, c’è un mondo ancora troppo sommerso di casi», l’ultima risposta data a Open. «Oltre alla volontà manca soprattutto ancora una presa di coscienza della gravità del problema e proprio non me ne riesco a capacitare», continua Tavilla, sottolineando come le stime e le percentuali suggeriscano una emergenza sanitaria tra i giovani «pari a un’epidemia». La solitudine e il vuoto di una mancata assistenza sono l’aspetto più drammatico di questo racconto. Giovani e famiglie passano mesi in attesa che qualcuno tenda loro una mano, continuando a vivere in una società che definisce privilegio il diritto alla salute mentale. Se la sanità pubblica non ha risorse, ricorrere ai costi del privato, quando c’è, è prerogativa di pochi. «Con numeri che crescono e patologie senza diagnosi, i giovani non curati di oggi diventeranno adulti con malesseri cronici. Si lascia campo libero al privato ma mi chiedo se tutto questo abbia davvero a che fare con il sacrosanto diritto alla salute», spiega Tavilla. «Si tratta di un disturbo mentale non di un capriccio con il cibo, espressione di una profonda sofferenza generazionale, per cui si continua a morire. Ma il massimo che si è deciso di fare è rimanere immobili».
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