Il Pd di Elly Schlein sarà più radicale? Ignazi: «Sì, ed è una fortuna. Porterà il centrosinistra fuori da una melassa indefinita» – L’intervista
Elly Schlein, all’età di 37 anni, si trova alla guida del primo partito di opposizione italiano. «Partito che non ha mai smesso di essere il perno del centrosinistra, è ridicolo pensare che avesse abdicato in favore dei grillini», sostiene Piero Ignazi. «In confronto, Movimento 5 stelle e Terzo polo sono partiti di pasta frolla». Per il politologo, esperto in politica comparata, «all’organizzazione e alla capillarità territoriale, adesso, si aggiungono una leadership e una linea politica chiare», che renderanno il Partito democratico ancora più centrale nel contrasto al governo Meloni. «Giuseppe Conte e Carlo Calenda dovranno adeguarsi, inseguire un Pd che è tornato a dare la carte del mazzo delle opposizioni». Merito, secondo Ignazi, di una certa radicalità delle posizioni di Schlein, che porterà il centrosinistra fuori «da una specie di melassa indefinita, che ha fatto le sfortune del Partito democratico».
Professore, la vittoria di Schlein non era stata prevista dai sondaggisti. Qual è stato lo snodo che ha fatto cambiare passo alla sfidante di Stefano Bonaccini?
«Con tutto il rispetto per i sondaggisti, se non vengono utilizzati campioni mostruosi è estremamente difficile avvicinarsi alla realtà con gli strumenti dei classici sondaggi. Comunque, la differenza nel numero di partecipanti tra la consultazione nei circoli, nella prima fase, e il voto aperto ai gazebo contribuisce a spiegare molte delle ragioni. C’è stata una mobilitazione di persone a sostegno della Schlein che non sono parte integrate del Pd. Lo dicono anche le prime ricerche fatte per analizzare le primarie: una quota rilevante di chi ha votato Schlein non è iscritta al Pd. Non si può dire lo stesso per Bonaccini».
Eppure Bonaccini aveva dalla sua parte l’apparato del partito.
«Non lo definirei apparato: i partiti di oggi sembrano degli scheletri rispetto alle strutture imponenti che avevano un tempo. Il progetto di Schlein era più “mobilitante” rispetto a quello di Bonaccini. La figura del presidente dell’Emilia-Romagna è stata considerata dai più alla stregua di “un usato sicuro”. Per gli elettori, invece, era necessario un cambio di passo: la continuità con il passato non è stata ritenuta utile a risalire la china dove è caduto il Pd. La figura di Schlein, invece, è stata percepita come estremamente più nuova e innovativa. C’è stato processo di identificazione con lei e il suo progetto politico».
C’è anche un tema di polarizzazione dell’elettorato che, nell’ultimo decennio, ha dimostrato di propendere verso gli estremi della proposta politica?
«Finalmente si scopre un po’ di acqua calda. E non è una questione di ultimi anni, è un processo in atto da mezzo secolo. L’idea tipica degli anni ’50 e inizi ’60 che si vinceva al centro, con politiche più moderate, è tramontata da molto tempo. La realtà è che le elezioni si vincono se si presentano posizioni nette, precise, con un buon tasso di radicalità nell’agenda politica. Inoltre, consideri che non esiste un passaggio di consenso da centrodestra e centrosinistra. L’elettorato non si muove da uno schieramento ideologico a un altro. Chi vince lo fa perché pesca nell’astensione della propria area di riferimento».
Ha parlato di radicalità: vede delle assonanze con la parabola di Giorgia Meloni?
«La radicalità ha certamente favorito Meloni nell’imporsi alle scorse elezioni. Il caso di Schlein, però, è molto diverso: parliamo di una candidata che non si presentava in continuità con il partito che stava provando a scalare. Un partito che era qualcosa di indefinito: l’affermazione di Schlein restituisce al Pd un collocamento chiaro a sinistra. Capisco che chi proviene da un passato centrista, adesso, possa sentirsi in difficoltà».
Torno a utilizzare il termine apparato perché, quantomeno al Sud, ci si aspettava che le diramazioni territoriali del Pd garantissero la vittoria schiacciante di Bonaccini. Invece, la Sicilia ha addirittura preferito Schlein.
«Allora le propongo un altro termine. Parliamo di reti notabilari, di reti clientelari ai cui vertici ci sono politici importanti del territorio, ma anche sindaci, assessori, consiglieri regionali. “Clientelari” senza bisogno di distribuire risorse, ma nel senso di relazioni intessute, meglio essere chiari. È vero che al Sud i partiti funzionano più così: la rete di persone che controlla le amministrazioni locali e gestisce gli interessi dei cittadini riesce ad avere più influenza. In Campania e in Puglia, infatti, c’è stato comunque un forte sostegno a Bonaccini. In Sicilia no, ma lì il Pd non è partito di governo. In Toscana, ad esempio, dove erano schierati con il governatore emiliano sia il sindaco di Firenze che il presidente di Regione, le cose sono andate diversamente rispetto al Sud. Forse perché in Toscana esiste una cultura politica profonda. Sì, questa cultura politica è diversa rispetto alle Regioni del Sud. Per chiarire meglio e sintetizzare: laddove, in regioni importanti come Campania e Puglia, il Pd è ben presente nelle amministrazioni locali, il Pd è capace di creare una rete di consenso. Questo grazie alla presenza ramificata, non tanto come partito in sé, ma in quanto partito radicato nelle istituzioni locali».
Guardando avanti, cosa succederà adesso nel campo delle opposizioni?
«Succederà che le opposizioni dovranno confrontarsi con un Pd che è il perno del centrosinistra. Lo era anche prima, ovviamente, è ridicolo pensare che avesse abdicato in favore dei grillini. Ma in generale è ridicolo pensare che i rapporti di forza cambino sulla base dei sondaggi. La forza del Pd è che governa un numero rilevante di enti locali e, ancora oggi, è il partito egemone sui territori. Stiamo parlando di un’organizzazione fortissimamente impiantata a livello locale, con centinaia di migliaia di iscritti. Non c’è paragone con gli altri partiti di opposizione che, in confronto, sono fatti di pasta frolla. A questi rapporti di forza basati sull’organizzazione e la presenza sul territorio, mancava una leadership e una linea politica chiara. Adesso che ci sono entrambe, fanno la differenza nell’equilibrio con gli altri due piccoli partner di opposizione».
La leadership di Schlein costituirà un problema più per il Terzo polo o per i 5 stelle?
«Per entrambi. Al Terzo polo si è rivolto un elettorato che era insoddisfatto di una linea politica poco chiara del Pd. Ai 5 stelle, invece, sono andati i voti di chi era insoddisfatto di un’opposizione poco grintosa dal Pd. Un male, quest’ultimo, che deriva dal disastro della partecipazione del Pd al governo Draghi, durante la quale il Pd non è riuscito a ottenere nulla».
Il Terzo polo invece sembra esultare per l’appiattimento del Pd su posizioni di sinistra.
«Sono battute che lasciano il tempo che trovano. Gli elettori moderati, quando votano, votano l’originale di centrodestra, non la fotocopia terzopolista. Anche perché non si sa bene in cosa si distinguano i centristi del Terzo polo dai componenti non arrembanti del governo attuale».
Come sarà il rapporto tra Conte e Schlein?
«Competitivo. C’è sempre una competizione tra le forze che agiscono all’interno dello stesso campo politico. Questo varrà sia per il M5s che per il Terzo polo, la competizione sarà tra tutti. Qualche collaborazione ci sarà su qualche intesa, ma Conte e Calenda dovranno adeguarsi, inseguire un Pd che è tornato a dare la carte del mazzo delle opposizioni. È finita l’epoca di un Pd in preda agli incerti. Questa nuova leadership è in grado di esprimere una linea chiara. È cambiato lo schema, e credo che gli altri partiti di opposizione l’abbiano già capito».
Invece, vede la vittoria di Schlein come un problema per la leadership di Giorgia Meloni?
«È una costruzione mediatica quella che vuole Meloni vincente anche perché è giovane e donna. Vediamo che costruzione mediatica si farà su Schlein. Ma io sono convinto che Meloni non abbia attratto i voti dei giovani perché è giovane o delle donne perché è donna. Ha attratto i voti del centrodestra, perché ha espresso un’opposizione convinta al governo Draghi. Il disastro del Pd di Enrico Letta è stato dare un sostegno a Mario Draghi al punto da dichiarare di fare propria la presunta agenda Draghi. Non ha capito nulla della direzione in cui soffiava il vento».
Sarà difficile per Schlein cambiare questi paradigmi. Il Pd è ormai caratterizzato, ad esempio, per l’invio di armi all’Ucraina. Oppure, sul reddito di cittadinanza, il Pd è a favore, ma con delle ambiguità interne. Schlein, invece, su queste posizioni è quasi più vicina ai 5 stelle.
«Il sistema di welfare deve essere un elemento caratterizzante di ogni partito di sinistra. Altrimenti, se si hanno dei dubbi sull’assistenzialismo di Stato, si fa parte dello schieramento di centrodestra. Se il Pd è membro della famiglia socialista europea, allora è meglio non annacquare l’ideologia di sinistra. Si è parlato tanto di riscoprire l’identità del Pd, in questo congresso. La condizione per riprendere vigore è la radicalità. Salario minimo? Deve essere la prima battaglia, senza le ambiguità precedenti. Il reddito di cittadinanza? Pure, è un provvedimento di welfare state che hanno tutti i Paesi europei, a dimostrazione che l’Italia è spesso capofila di cortocircuiti logico-politici. Sul reddito, il Pd ha commesso un grandissimo errore. E pensare che era stato Paolo Gentiloni a introdurre la prima forma di questo tipo in Italia, il Rei. Poi, anziché abbracciare e fare proprio il reddito di cittadinanza, il Pd l’ha criticato. Quindi sì, certamente le posizioni di Schlein faranno esprimere una maggiore radicalità al Pd. E direi anche per fortuna: porterà il centrosinistra fuori da una specie di melassa indefinita, che ha fatto le sfortune del Pd»
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