Dal litio toscano alle terre rare in Sardegna: dove cercare in Italia i «materiali critici» per la transizione energetica
Con il passaggio dalle auto a motore alle auto elettriche, l’Unione Europea promette di rivoluzionare il settore dei trasporti per renderlo più sostenibile. Perché questo avvenga, però, non basta convincere le aziende della filiera a riconvertire la propria produzione. C’è bisogno di iniziare molto prima. In particolare, dal reperimento delle materie prime. «Il litio e le terre rare diventeranno presto più importanti del petrolio e del gas naturale. La loro domanda è destinata a quintuplicarsi da qui al 2030», scandiva la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen in un discorso all’Eurocamera. Con l’espressione critical raw materials – in italiano, «materiali critici» – si indicano tutti i metalli ed elementi utili alla transizione energetica. Un esempio? Il litio, che oggi viene impiegato nella produzione di batterie e accumulatori elettrici. Oppure il cobalto, che – proprio come il litio – trova il suo impiego principale nei sistemi di storage di energia. O ancora: le terre rare, un gruppo di quindici elementi chimici utilizzati per i motori delle auto ibride o nei magneti che fanno funzionare le pale eoliche. Ad oggi, i Paesi europei importano la quasi totalità di questi materiali. E per far fronte alla crescente domanda la Commissione europea sta lavorando al Critical Raw Materials Act, che si muove lungo due direttrici: da un lato, la ricerca e l’estrazione sul suolo europeo; dall’altro, la messa a punto di una strategia per assicurarsi una fornitura regolare (e conveniente) dall’estero.
I materiali critici nel mondo e lo svantaggio dell’Italia
La transizione energetica ha trasformato lo scambio di materiali critici in uno dei più potenti strumenti geopolitici. Ad oggi, infatti, la produzione di questi materiali è controllata da una manciata di Paesi, che controllano i giacimenti più redditizi. A fare la parte del leone è la Cina, che detiene il 40% delle riserve mondiali di terre rare ed è responsabile di circa l’80% della loro produzione mondiale. L’Ue, infatti, importa da Pechino il 97% delle terre rare che consuma, con tutti i rischi che ne derivano. E un discorso simile vale anche per il litio. Proprio nei giorni scorsi, per esempio, il governo di Xi Jinping ha annunciato di voler bloccare le estrazioni nella provincia Jiangxi per irregolarità ambientali, rischiando di causare un terremoto sul mercato mondiale. Gli altri grandi produttori di questo metallo si trovano in Sud America. Lì, infatti, Cile, Argentina e Bolivia compongono il cosiddetto «triangolo del litio», dove si concentra il 59% delle estrazioni di tutto il mondo. Il 70% del cobalto, invece, proviene dalla Repubblica democratica del Congo, dove viene estratto sfruttando l’arretratezza legislativa in termini di tutela ambientale e sicurezza dei lavoratori.
E in Italia? Esistono zone della nostra penisola dove si nascondono giacimenti di materiali critici? «Se sapessi rispondere con certezza, sarei già diventato milionario», scherza Andrea Dini, ricercatore dell’istituto di Geoscienze e Georisorse del Cnr. Innanzitutto, va detto che il nostro Paese – e insieme a noi il resto dell’Europa – parte da una situazione di grosso svantaggio. «Le terre rare si trovano soprattutto nelle aree geologicamente più antiche, come Siberia, Cina, Brasile, Africa. L’Europa, che è la parte più giovane dei continenti, ne ha pochissime», spiega Sandro Conticelli, presidente della Società geologica italiana. Una situazione che pesa ancora di più sul nostro Paese, dove allo svantaggio geologico si somma anche un ritardo cronico nel settore della ricerca geologica e mineraria.
Il litio nascosto sotto Toscana e Lazio
Nel 2021, il ministero per lo Sviluppo economico – oggi ministero delle Imprese e del made in Italy – ha avviato un tavolo tecnico per le materie prime critiche. L’obiettivo: aggiornare le normative e mappare le aree più promettenti. Ad oggi, uno dei progetti che sta catalizzando più sforzi riguarda la ricerca del litio tra la bassa Toscana e il Lazio. «Si tratta di una zona vulcanica lunga centinaia di chilometri, che parte dal Monte Amiata e arriva fino ai Campi Flegrei. Lì, in profondità, ci sono grosse quantità di acqua calda, in cui negli anni ‘70 Enel e Agip hanno trovato percentuali enormi di litio», spiega Andrea Dini. Le ricerche, però, si sono presto interrotte: «In quegli anni tutti consumavano petrolio, il litio non se lo filava nessuno», ricorda il ricercatore del Cnr.
Sulla base di quelle esplorazioni e della geologia della zona, gli esperti ritengono che sia proprio quella la fascia di terra dove si concentra il maggior potenziale di fluidi ricchi di litio. L’iter per arrivare all’estrazione vera e propria, però, è ancora lungo e complesso. «Vicino a Bracciano, l’Enel ha avuto un permesso di ricerca preliminare. Entro fine anno dovranno decidere se investire o meno nell’esplorazione profonda», spiega il ricercatore. Il processo con cui si dovrebbe estrarre il litio prevede diversi passaggi. Innanzitutto, individuare un area precisa dove è più facile intercettare i fluidi che scorrono sotto terra. Dopodiché, si dovranno costruire pozzi geotermici per portare l’acqua calda in superficie. «A quel punto – prosegue Dini – i liquidi potranno rispondere a tre funzioni: produzione di energia elettrica, teleriscaldamento di alcuni comuni limitrofi ed estrazione del litio, prima che il liquido venga pompato di nuovo sotto terra».
Gli altri materiali critici in Italia
La ricerca del litio in Toscana e Lazio non è l’unico progetto in corso in Italia. Un altro fronte promettente nella ricerca di materiali critici riguarda il cobalto. In Piemonte, infatti, questo metallo si estraeva già secoli fa, quando veniva utilizzato nel settore della ceramica. Le miniere, ormai dismesse, si trovano sui due versanti di Punta Corna, un monte delle Valli di Lanzo, in provincia di Torino. «Una società australiana sta conducendo esplorazioni in alcune miniere dismesse. L’obiettivo è stabilire se ci sono le condizioni per riaprire gli impianti e avviare le estrazioni senza impattare troppo sul paesaggio», sottolinea Dini.
Per quanto riguarda le terre rare, invece, l’attenzione si sposta sulla Sardegna. In particolare, nella miniera di Muscadroxiu, vicino al paese di Silius, a una cinquantina di chilometri da Cagliari. Qui sono state estratte per decenni la barite e la fluorite, due minerali pesanti e destinati a scomparire nei prossimi anni. Oggi, però, la Mineraria Gerrei sta pensando di riaprire la miniera per l’estrazione di terre rare. Lo scorso settembre, poi, l’Università di Ferrara ha scoperto nella cava di marmo di Buddusò, in provincia di Sassari, uno dei giacimenti di terre rare più promettenti in Europa. Oltre a litio, cobalto e terre rare, sono decine le materie prime critiche necessarie alla produzione di batterie, accumulatori o dispositivi elettronici. Tra di loro c’è anche lo zinco. «Può sembrare un metallo banale, ma oggi c’è una grandissima richiesta», precisa il ricercatore del Cnr. «A Gorno, vicino a Bergamo, c’è una miniera dove fino agli anni ‘90 si estraeva zinco. Oggi si sta valutando se ce n’è ancora abbastanza per far partire nuove esplorazioni».
L’impatto ambientale e l’incognita riciclo
Per quanto l’impatto ambientale di un’auto elettrica resti inferiore a quello di un’auto a benzina, le materie prime necessarie per produrre le batterie non sono affatto a emissioni zero. L’estrazione di una tonnellata di litio, per esempio, richiede 500mila litri d’acqua e produce emissioni di CO2 tutt’altro che trascurabili. Nel caso del cobalto, i danni collaterali sono pure peggiori. Oltre a essere energivora, l’estrazione di questo metallo richiede spesso cariche di esplosivo, che rilasciano nell’atmosfera polveri sottili e particolato. Da anni, inoltre, diverse ong denunciano le condizioni da incubo di chi lavora nelle miniere in Congo, primo produttore mondiale di cobalto. Eppure, secondo Diego Gatta, professore del dipartimento di Scienze della terra all’Università degli studi di Milano, non dev’essere per forza così. «Già oggi disponiamo delle conoscenze necessarie per far sì che l’impatto ambientale di queste estrazioni sia ridotto al minimo. Piuttosto, è una questione di volontà», spiega Gatta. «Oggi possiamo estrarre gli stessi elementi in vari posti del mondo con processi molto diversi. Alcuni molto costosi ma a basso impatto ambientale, altri più redditizi ma fortemente inquinanti», precisa il professore. Il fatto che oggi buona parte delle miniere si trovi in nazioni del terzo mondo non è affatto casuale. Si tratta di Paesi dove spesso non esiste una legislazione ambientale e dove le norme sulla sicurezza del lavoro sono meno stringenti.
Oltre a investire sui processi di estrazione meno inquinanti, l’Unione Europea ha a disposizione un’altra strada: il riciclo. «Il fatto di avere a disposizione così poche materie prime all’interno dei nostri confini dovrebbe spingerci a investire tantissimo sulla ricerca e sulle politiche di riciclo», continua Gatta. Anche in questo caso il Paese da cui prendere spunto è la Cina, dove il recupero di metalli dai rifiuti elettronici è già una realtà. «I cellulari e tutti i dispositivi elettronici che buttiamo in discarica sono una miniera d’oro… anzi, di terre rare!», ricorda Sandro Conticelli. «L’economia circolare è una declinazione della sostenibilità. L’obiettivo ora è investire nella ricerca per rendere i processi attuali di riciclo sempre più convenienti», aggiunge il presidente della Società geologica italiana.
Il ruolo del geologo
Per far fronte alla crescita vertiginosa della domanda di materiali critici, Bruxelles ha indicato due strade. La prima, come detto, riguarda gli investimenti in ricerca ed esplorazione sul suolo europeo. Visti i limiti geologici, però, è inevitabile che i Paesi europei saranno costretti a continuare a rivolgersi all’estero. Per questo, la Commissione europea ha lanciato una serie di iniziative, tra cui il Global Gateway, per assicurarsi l’approvvigionamento delle materie prime necessarie. «La strada per il futuro è questa – conferma Gatta –. Per garantire l’indipendenza europea, dovremo rivolgersi a quei Paesi, soprattutto in Africa, che hanno giacimenti di materie prime ma a cui manca il know how». Al momento, è la Cina il Paese che più sta investendo nel continente africano. Gli investimenti di Pechino, però, non sono sempre visti di buon occhio dalle popolazioni locali, soprattutto a causa delle ricadute ambientali e sociali. Ed è proprio qui che potrebbe inserirsi l’Unione Europea, proponendo investimenti eticamente più accettabili e impegnandosi a garantire standard ambientali più rigorosi.
Insomma, che si tratti di estrarre materie prime in casa propria oppure all’estero, i Paesi europei hanno ancora tanta strada da fare da qui al 2035. E l’Italia, almeno per quanto riguarda i materiali critici, dovrà correre ancora più veloce di tutti gli altri. «Certo, siamo sfavoriti geologicamente. Ma lo siamo ancora di più da un punto di vista culturale», avverte Conticelli. «Gli italiani sanno quanti professori di giacimenti minerari ci sono in Italia? Pochissimi. E quanti geologi? Pochissimi. Se non iniziamo a investire davvero in ricerca e formazione, non andremo da nessuna parte». Questo sentimento di abbandono è condiviso da buona parte dei geologi. La speranza ora è che sia proprio la rinnovata attenzione verso i materiali critici a svoltare la situazione. «Queste materie prime sono il futuro e spetta a noi riuscire a indicare dove si possono trovare, offrendo una ricetta di sostenibilità sia economica che ambientale – sottolinea Conticelli –. Il mestiere del geologo sarà sempre più importante».
Foto di copertina: UNSPLASH/ALEXANDER SCHIMMECK | La distesa salata di Salar de Uyuni, in Bolivia, è una delle più grandi riserve di litio al mondo
Grafiche di: VINCENZO MONACO
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