Il tifoso viola reintegrato, l’autista omofobo licenziato. Il caos delle norme dietro due sentenze così diverse
La materia dei licenziamenti infiamma da sempre le aule di giustizia, con decisioni non sempre facili da comprendere, soprattutto perché spesso il cittadino comune ha la sensazione che manchi un metro di valutazione comune e condiviso tra gli organi di giustizia. La scorsa settimana sono salite agli onori della cronaca due vicende molto diverse che hanno accentuato questa sensazione: la controversia del dipendente licenziato per essere andato a vedere la partita Fiorentina-Juventus durante la malattia e quella dell’autista cacciato dal lavoro per aver definito con tono derisorio «lesbica» una sua collega.
Le vicende sono diverse sia per la dinamica dei fatti, sia per il grado di giudizio in cui si sono svolte (la causa del lavoratore che va allo stadio in malattia si è svolta presso il Tribunale del lavoro di Arezzo, quella sull’atteggiamento omofobo era giunta in Corte di Cassazione): eppure l’esito diverso delle due cause racconta più di mille saggi dottrinali la situazione che abbiamo oggi sul tema dei licenziamenti.
I due casi
Il Tribunale di Arezzo ha deciso di «perdonare» il dipendente che durante il periodo di malattia – dovuta a una sciatalgia – è andato allo stadio, applicando un approccio estremamente garantista: il giudice ha, infatti, ritenuto compatibile quell’attività con la patologia denunciata e non ha avuto nulla da eccepire in merito al fatto che il lavoratore non si fosse chiuso in casa per un’eventuale visita fiscale. Un approccio diametralmente opposto è stato seguito dai giudici della Corte di Cassazione nella vicenda dell’autista che ha avuto la sciagurata idea di prendere in giro una collega per il suo orientamento sessuale. Questo autista, al momento del cambio turno, aveva pronunciato verso la collega, in presenza di altre persone, delle frasi sconvenienti e offensive («Ma perché sei uscita incinta pure tu?», «ma perché, non sei lesbica tu?», e – con fare irrisorio – «e come sei uscita incinta?»). L’azienda lo aveva licenziato ma la Corte d’Appello di Bologna aveva ritenuto troppo rigorosa questa scelta, derubricando il fatto a una condotta «sostanzialmente inurbana», dovuta all’inopportuna ingerenza del collega nella sfera sessuale della lavoratrice, che avrebbe meritato una sanzione meno grave del licenziamento (la sospensione dal servizio e dalla retribuzione per alcuni giorni). Approccio rovesciato dalla Corte di Cassazione che, come accennato, ha applicato il massimo del rigore possibile, qualificando la condotta del lavoratore come una forma di discriminazione meritevole del licenziamento per giusta causa, invocando la lesione di alcuni valori di rango costituzionale.
I differenti orientamenti
Come si vede, ogni Corte (e ogni grado di giudizio) chiamata a decidere sui licenziamenti utilizza un grande spazio di discrezionalità, quello che gli lascia la legge. Situazione che può avere tante giustificazioni valide ma produce il risultato finale che nessun licenziamento può essere definito «giusto» o «ingiustificato» sin dall’inizio: qualsiasi licenziamento può essere confermato o annullato secondo gli orientamenti, l’approccio e la visione del singolo tribunale o del grado di giudizio in cui sarà esaminato. Una situazione di assoluta incertezza che non è attribuibile solo alla giurisprudenza ma scaturisce anche da due altri importanti fattori: la confusione delle norme e la scarsa chiarezza dei contratti collettivi. La normativa sui licenziamenti attualmente è un puzzle composto da tasselli che non si incastrano tra loro: statuto dei lavoratori, tutele crescenti, decreto dignità, norme per le piccole imprese, regole per il settore pubblico, disciplina speciale per i dirigenti, procedure di licenziamento collettivo, sono solo alcuni dei sotto-regimi che devono essere studiati quando si analizza o si prepara un licenziamento. E le norme dei contratti collettivi sembrano scritte per enfatizzare, invece che ridurre, le incertezze: è raro trovare una descrizione chiara e comprensibile delle condotte che possono essere sanzionate con il licenziamento, prevalgono descrizioni complicate, verbose e poco comprensibili. Tutto questo produce il risultato rappresentato in maniera molto efficace dalle vicende sopra descritte: un licenziamento non è mai certo, può essere valido o nullo a seconda delle circostanze. Se non fosse un problema terribilmente serio, si potrebbe scherzosamente modificare la traduzione dell’antico proverbio attribuito a Cicerone «tot capita tot sententiae»: tutto capita nelle sentenze.
Foto di copertina: Flynt | Dreamstime.com
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