Conti segreti, riciclaggi, fallimenti: come Credit Suisse è diventata Debit Suisse e cosa può succedere alle banche italiane
Nella notte Credit Suisse ha comunicato al mercato l’intenzione di esercitare la sua opzione per prendere in prestito fino a 50 miliardi di franchi dalla Banca Centrale Svizzera. In una nota l’istituto di credito ha fatto sapere che questo servirà a rafforzare la sua liquidità. E che «sosterrà le attività core e i clienti di Credit Suisse mentre la banca prende le misure necessarie per creare una struttura più semplice e concentrata sulle necessità dei suoi clienti». La banca si offre anche di riacquistare debito per circa tre miliardi di franchi. Il Ceo Ulrich Koerner ha spiegato che il prestito arriva nell’ambito di una «Covered Loan Facility e di una liquidity facility a breve termine. Interamente garantite da attività di elevata qualità». La mossa è pensata per arginare il panico nelle Borse e dovrebbe contribuire a diminuire la pressione sul settore creditizio. Ma cosa ha trasformato Credit Suisse in Debit Suisse, come la definiva un hashtag di ieri su Twitter oggi finito sui giornali?
L’anello debole
L’istituto fondato nel 1856 da Alfred Escher ha perso ieri il 24% in Borsa. Alla base del crollo l’annuncio da parte della Saudi National Bank, partecipata per il 37% dal fondo sovrano saudita, che ha escluso un nuovo sostegno finanziario alla banca. SNB è il maggior azionista del Credit Suisse: per questo la notizia ha scatenato la bufera su Zurigo. Alla fine dello scorso anno gli arabi avevano acquistato una partecipazione del 9,88% dell’istituto in concomitanza con l’aumento di capitale da 4 miliardi di franchi. Al suo fianco ci sono Qatar Holding con il 5,03% e Olayan Group al 4,93%. Insieme formano un blocco che sfiora il 20% del capitale. Segue BlackRock appena sopra al 4%. Secondo l’amministratore delegato del fondo americano Larry Fink si paga oggi il prezzo di «decenni di denaro facile». Robert Kiyosaki, l’investitore che aveva previsto il tracollo di Lehman Brothers nel 2008, ritiene che Credit Suisse sarà la prossima vittima. Nouriel Roubini afferma invece che la banca sia «troppo grande per fallire ma anche per essere salvata».
Too big to fail?
La Finma, l’autorità di supervisione dei mercati finanziari svizzera, è tornata ad assicurare che Credit Suisse soddisfa i più alti requisiti di capitale e liquidità applicabili alle banche importanti a livello di sistema. Il che è tecnicamente vero. Ma è altrettanto vero che un titolo che quindici anni fa valeva 80 euro e cinque anni fa 15 ora è sceso a un decimo. È vero che CS ha gestito 1.500 miliardi di franchi svizzeri. Ma il risultato netto 2022 segna -7,3 miliardi di franchi. La crisi è ufficialmente cominciata due anni fa, con il crollo di Archegos Capital Management. Bill Hwang, finanziere americano di origini coreane, finisce agli arresti. E tra i suoi maggiori finanziatori spunta proprio la banca svizzera. Che ci perde 5 miliardi e mezzo di franchi. Poi crolla Greensill, proprio mentre Credit Suisse consigliava l’acquisto di suoi prodotti finanziari. Un altro miliardo va a pesare sui conti e la banca da quel momento finisce in un vortice di scandali finanziari.
Il lato oscuro della globalizzazione
In Mozambico la banca presta un miliardo di dollari a due società statali che elargiscono mazzette. Altri 475 milioni di dollari di multe da pagare. In Svizzera arriva una condanna penale per aver aiutato nel riciclaggio un’organizzazione bulgara che trafficava droga. “Suisse secrets” rivela i dati di 18 mila clienti. Eppure attualmente CS rimane la seconda banca svizzera dopo Ubs, con una capitalizzazione di 6,83 miliardi di franchi svizzeri e 50 mila dipendenti. Si tratta di episodi ciclici radicati nel tempo. Nel 1986 ha protetto con nomi falsi i depositi del dittatore Marcos e di sua moglie Imelda. Da 5 a 10 miliardi di dollari. Dieci anni dopo il Tribunale di Zurigo ha ordinato alla banca di restituire 500 milioni al governo di Manila. Nel 2000 le sanzioni per i rapporti con il dittatore nigeriano Sani Abacha. Nel 2004, il Credit ha riciclato 5 miliardi di yen per la Yakuza la mafia giapponese. Risale al 2009 una multa da 536 milioni di dollari per aver aiutato varie società ad aggirare le sanzioni contro Sudan e Iran. Nel 2011 un’altra multa per aver aiutato ad evadere oltre un miliardo di euro decine di contribuenti tedeschi.
L’esposizione delle banche italiane
Ora uno dei temi è cosa possono rischiare le banche italiane. La Repubblica fa sapere che Palazzo Chigi segue il dossier in contatto con Consob e Banca d’Italia. Le controparti italiane non paiono esposte in modo significativo sugli 11,9 miliardi di euro iscritti a bilancio come debiti bancari. Quindi, secondo la premier, dal punto di vista dei numeri non c’è molto da preoccuparsi. Da quello del panico sì. Il quotidiano ricorda anche che le banche italiane sono molto esposte con i titoli governativi. Bankitalia censiva 384 miliardi di euro in titoli del Tesoro. E 200 miliardi di altri bond. Ogni volta che il tasso della Banca Centrale Europea sale i titoli rendono di più, ma si deprezzano in bilancio. Attualmente i grandi istituti coprono con derivati le perdite dei Btp. E il 55% dei bond governativi è fermo in bilancio fino alla scadenza, quando arriva il rimborso alla pari.
I pericoli
Le perdite però si concretizzerebbero se le banche vendessero i bond per finanziarsi. Ma questo potrebbe accadere soltanto se il panico prendesse piede oltre ogni limite. Per esempio con un assalto agli sportelli che oggi è impensabile. Si tratta, spiega il quotidiano, di uno scenario che Kepler martedì definiva «altamente improbabile, a fronte della liquidità in eccesso di cui dispongono», misurata dall’indice Lcr che in Europa è mediamente al 167%, e per i grandi gruppi Intesa Sanpaolo, Banco Bpm, Bper anche superiore (mentre Unicredit è poco sotto la media). Ora la Bce sta chiedendo alle banche di tutta Europa di comunicare la loro esposizione sull’istituto di Zurigo. La presidente del consiglio Giorgia Meloni, senza fare nomi, ha annunciato la «massima attenzione del governo sui mercati finanziari. Mentre il primo ministro francese Elisabeth Borne ha chiesto alle autorità svizzere di intervenire direttamente, annunciando un incontro tra il ministro dell’economia Bruno Le Maire ed il suo omologo a Berna.
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