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Strage via D’Amelio, le 1500 pagine dei giudici sui depistaggi: Cosa Nostra, l’agenda rossa e il ruolo dei servizi segreti

06 Aprile 2023 - 10:51 Ygnazia Cigna
Le motivazioni della sentenza sull'omicidio di Paolo Borsellino: Scarantino mentitore, gli appoggi isttuzionali

Non è stata Cosa Nostra a far sparire materialmente l’agenda rossa di Paolo Borsellino. A metterlo nero su bianco sono stati i giudici di Caltanissetta nel processo per il depistaggio sulle indagini della strage di via d’Amelio. Dove, il 19 luglio 1992, morì il giudice e cinque agenti della sua scorta. Il documento della sentenza a carico di tre poliziotti è stato depositato ieri in cancelleria. Dagli elementi disponibili non si riesce ancora a individuare la persona fisica esatta che portò via l’agenda, ma secondo i magistrati si tratta di qualcuno che ricopriva una carica istituzionale, che gli ha permesso di agire indisturbato. E di sapere perfettamente cosa sarebbe stato utile sottrarre. Un intervento che i giudici descrivono come «invasivo, tempestivo ed efficace». Nei depistaggi delle indagini viene così accertato l’intervento da parte di soggetti esterni a Cosa nostra che avevano l’obiettivo di alterare il quadro delle investigazioni ed evitare che si potesse indagare anche su matrici non mafiose della strage, e svelare quindi il loro coinvolgimento.

Perché non solo mafia

Sono quasi 1.500 le pagine dei giudici sulle motivazioni dell’eccidio. Scrivono chiaramente che nell’eliminazione di Borsellino hanno avuto un ruolo chiave anche altri soggetti o gruppi di potere co-interessati all’eliminazione del magistrato, sia nell’ideazione che nella preparazione ed esecuzione della strage di via D’Amelio. A dimostrazione di quanto detto, i giudici di Caltanissetta puntano l’attenzione sui tempi della strage, dissonanti rispetto al tradizionale “contegno” di Cosa Nostra, che tende a diluire nel tempo i delitti, se si tratta di bersagli istituzionali. Così da frenare l’attività di reazione delle istituzioni. Ma sono molti gli elementi che inducono a non ridurre l’attentato alla sola paternità mafiosa. Agenda rossa in testa. Gli occhi sono puntati sui testimoni sentiti nel corso degli anni che – stando a quanto scrivono i giudici – «consegnano un quadro per niente chiaro, fatto di insanabili contraddizioni tra le varie versioni, tra l’altro più volte rivedute e stravolte, che non permettono una lettura certa degli eventi aumentando la fallacia di qualsiasi conclusione».

Il mentitore di professione

In particolare, i magistrati se la prendono con l’ex giudice Giuseppe Ayala, che ha cambiato versione diverse volte negli anni. Ma anche contro il falso pentito Vincenzo Scarantino, definito un «mentitore di professione dal 1994». In 30 anni, d’altronde, non ha mai smesso di fornire versioni contrastanti. Compreso il processo di ieri ha, dove ha dato l’ennesima ricostruzione dei fatti controversa e contraddittoria. «Più che rappresentare una prova scivolosa da maneggiare con cautela, Scarantino rappresenta una prova insidiosa dalla quale è necessario prescindere a meno di non rimanere ostaggio delle altalene dichiarative dell’ex falso collaboratore», spiegano. La sua ambiguità altamente rischiosa ha portato quindi i giudici a definire impossibile riuscire a discernere il vero dal falso nelle sue dichiarazioni.

Il ruolo (improprio) dei servizi segreti

Il tribunale di Caltanissetta chiarisce, inoltre, che i servizi segreti non avrebbero potuto partecipare alle indagini sulla strage. Ma una partecipazione del Sisde c’è stata e non ne era al corrente solo il procuratore Tinebra (che la sollecitò), ma anche il vertice dei servizi di sicurezza. «È legittimo ritenere che il capo della Polizia di Stato e i vertici dei servizi segreti non potessero assumere un’iniziativa senza un minimo avallo istituzionale che non poteva che provenire dall’organo di vertice politico dell’epoca, cioè l’allora ministro dell’Interno Mancino», si legge nelle carte dei giudici. Ma nessuno dei magistrati d’ufficio si oppose. Probabilmente perché si trattava di un’iniziativa promossa dal capo d’ufficio. Infine, come è già noto, anche i giudici mettono nero su bianco che Paolo Borsellino «si sentì tradito da un soggetto inserito in un contesto istituzionale».

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