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Bolzano, la storia di Hanane: l’autista dell’autobus con il velo che sfida i pregiudizi

Sognava da anni di mettersi alla guida di un mezzo pesante, ma non aveva fatto i conti con il razzismo di alcuni passeggeri

Hanane Serkouh ha realizzato il sogno che coltivava sin da quando, ancora bambina, osservava il camion del padre autotrasportatore: mettersi alla guida di un mezzo pesante. Quarantaquattro anni (in Italia da 41), di origini marocchine, è riuscita infatti a diventare un’autista della Sasa, l’azienda di trasporto pubblico altoatesino. Un lieto fine, però, inquinato dai commenti razzisti di cui è bersaglio quotidianamente. Mentre attraversa la linea 1 di Merano o la 201, che collega a Bolzano, Hanane indossa infatti il velo: come ricostruisce il Corriere del Trentino, per lei è simbolo di dignità, libertà e rispetto per una fede che ha abbracciato in tarda età. Ma per alcuni passeggeri, emblema di una diversità da condannare.

«Non rispondo: ho paura che mi aggrediscano»

«Non si tratta di ragazzini immaturi: fino ad ora a creare problemi sono sempre stati adulti, per lo più donne – ha raccontato Hanane -. La prima volta è stato uno shock. Lavoravo da circa sei mesi e a causa del traffico il bus aveva un leggero ritardo, guidavo in modo sicuro ma spedito. Una signora italiana si è avvicinata a me e, senza alcun pretesto, ha iniziato a prendermi a male parole: “Ma come guidi? Vai al tuo Paese, chi ti ha dato la patente?”. Gridava, io ho iniziato a sudare freddo dalla paura. Poche settimane dopo una signora tedesca voleva scendere dove non era prevista fermata e al mio rifiuto mi ha apostrofata con insulti razzisti». Ma non sono stati gli unici episodi. «Lavoro da tre anni ed è già successo molte volte. L’ultima un mese e mezzo fa. Un uomo pretendeva che spegnessi l’aria condizionata ma era inverno, era già spenta. “Non capisci l’italiano? Sono io che ti pago”. Urlava, mi insultava, l’autobus era pieno e nessuno ha detto niente». In questi casi, lei avrebbe modo di reagire: «il protocollo prevede di fermare il bus, aprire le porte e chiamare i carabinieri». Ma non sempre ha l’energia o la voglia di farlo: «il giorno della signora tedesca in escandescenze era il mio ultimo giro, ero già vicina al capolinea e ho lasciato perdere», spiega ancora. In generale, la sua risposta alle persone che la insultano è gelida. Ma solo all’apparenza: «Le guardo in silenzio, ascolto senza rispondere e mi chiudo nella cabina di guida. Entro in una bolla in cui non capisco più niente. Vado a casa, piango, sto male per una settimana e poi passa». La sua assenza di reazioni deriva anche dalla paura che la situazione degeneri: «Per quello non rispondo: potrebbero tirarmi uno schiaffo».

Una scelta autonoma

Della situazione, racconta Hanane, sono a conoscenza sia l’azienda che i colleghi. «Alcuni mi dicono: fai finta di non sentire. Altri consigliano di reagire, buttando fuori queste persone. Non potrei mai farlo, non è il mio carattere. Però ho scritto due lettere raccontando ai superiori quello che era successo: non ho mai avuto risposta». Le aggressioni, comunque, non avvengono solo a bordo dell’autobus: «Due settimane fa ero a fare la spesa con mia mamma a Lana e una signora, passandoci accanto, ha detto Scheiß Ausländer (stranieri di m…), pensando che non capissi il tedesco ma sono bilingue. La titolare ha fatto finta di non sentire». Secondo lei, è anche il velo che indossa a creare imbarazzo, in quanto «simbolo della sua religione»: «Il Corano prevede che le donne indossino il foulard e io lo porto per convinzione e rispetto, non certo per obbligo di mio padre o mio marito. Anche perché sono divorziata». Alla religione islamica, racconta, si è avvicinata non per imposizione, ma dopo aver studiato: «I miei sono di mente aperta, hanno lasciato il Marocco da giovani e hanno cresciuto me e mio fratello come persone libere, senza inculcarci alcun credo. Solo dieci anni fa, studiando per conto mio, ho abbracciato la religione islamica e ho capito che è giusto che la donna si copra il capo. E siccome non penso di fare del male a nessuno, lo faccio». A chi adotta questi comportamenti, Hanane vorrebbe porre una domanda: «Chiederei perché si sono azzardati, senza conoscermi, a rivolgermi parole violente che mi hanno fatta soffrire». Nel frattempo, una risposta se l’è già data: «Il razzismo non ha causa ma tanti sintomi, in primis la cattiveria. La cui sola cura è la conoscenza, la cultura, il confronto con chi è diverso».

Altri due sogni nel cassetto

In ogni caso, la discriminazione non ha compromesso il suo amore per il lavoro: «Per me è come se fosse un hobby, mi rilassa, è una terapia quotidiana. Del “mio” autobus sono anche gelosa: è un dodici metri, largo poco più di due, ma guidarlo non è difficile, mi viene spontaneo. Anche sulle linee di montagna, con strade strette o neve, non ho alcun problema. Si vede che era il mio destino, oltre che il mio sogno». E poi, non tutti sono ostili: «Molti sorridono, mi fanno complimenti, apprezzano una donna emancipata con un lavoro considerato maschile». Un lavoro che però non è bastato a esaurire tutti i suoi sogni nel cassetto: «Mi piacerebbe scrivere un libro: la biografia di una ragazza che ho conosciuto in treno, con una storia che mi ha colpito. E recitare in un film: vorrei una piccola parte con un regista italiano, tedesco o marocchino, visto che sono trilingue. Accetterei qualsiasi ruolo, purché non debba togliere il foulard».

Foto copertina: Corriere del Trentino

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