Strage di Erba, le “prove” di Olindo e Rosa nell’istanza di revisione: «Testimoni, intercettazioni e perizie, ecco cosa non torna»
Fabio Schembri, avvocato di Olindo Romano e Rosa Bazzi, presenterà un’istanza di revisione del processo che ha condannato all’ergastolo i due coniugi della strage di Erba. La richiesta segue le parole del procuratore generale della Cassazione Cuno J. Tarfusser. Che dovrà decidere se ammettere gli atti alla Corte d’Appello di Brescia. Quali sono i motivi dell’istanza? Schembri spiega che ci sono ulteriori elementi rispetto a quelli di Tarfusser su cui i giudici dovrebbero riflettere. Nell’ordine, si tratta di tre consulenze tecnico-scientifiche sull’aggressione a Valeria Cherubini, due testimoni e le modalità della prima confessione dei due coniugi. Da combinare con alcune intercettazioni che secondo l’avvocato dimostrerebbero la loro innocenza. Intanto Pietro e Beppe Castagna vanno all’attacco.
L’aggressione di Valeria Cherubini
Schembri in un’intervista a La Stampa oggi elenca le prove per la riapertura del processo. Le tre consulenze dimostrano, secondo l’avvocato, che Olindo e Rosa non possono essere gli autori dell’omicidio di Cherubini. «La signora Cherubini fu l’ultima a essere aggredita, quando i primi soccorritori entrarono nella palazzina la sentirono chiedere aiuto. Le sentenze di condanna, per rendere compatibili la colpevolezza di Rosa e Olindo con la strage, hanno sempre affermato che la signora Cherubini ricevette tutti i colpi al primo piano, dove c’era la casa di Raffaella Castagna», premette nel colloquio con Francesco Moscatelli. «E che poi si trascinò a casa sua. Oggi la scienza dice che gli assassini la colpirono in maniera così efferata da provocare un’immediata perdita di coscienza. Quando entrarono i soccorritori gli assassini o l’assassino erano ancora nell’appartamento. Secondo le sentenze invece Rosa e Olindo sarebbero usciti dal portoncino per andare a casa loro, mettere i vestiti nei sacchi, pulire tutto, andare a Como e sbarazzarsi delle armi. Secondo noi chi ha compiuto la strage ha usato un’altra via di fuga dato che il portoncino era già presidiato da soccorritori e vicini».
Il tunisino
C’è poi un cittadino tunisino residente nel palazzo della strage e poi arrestato per traffico di stupefacenti. Faceva parte del gruppo di Azouz Marzouk e racconta di una faida in corso con un gruppo di pusher rivali per accaparrarsi la zona in piazza del Mercato a Erba. L’edificio il suo gruppo lo usava per custodire droga e denaro. Che dopo gli omicidi non vennero mai trovati. Un altro testimone sostiene invece di aver visto soggetti stranieri vicino al luogo del delitto in quelle ore. Infine, l’argomento delle intercettazioni ambientali e telefoniche fra Rosa e Olindo e del signor Frigerio in ospedale. «Raccontano un’altra storia su come avvenne il riconoscimento», sostiene Sghembri. Anche sulla traccia ematica nell’auto dei due coniugi ci sono dubbi: per gli esperti della difesa è incompatibile con la repertazione sull’automobile.
La confessione
Infine, c’è la confessione. «Abbiamo perizie psichiatriche che hanno riconosciuto un ritardo mentale in Rosa Bazzi e disturbi personalità in Olindo Romano. Patologie che li rendono soggetti facilmente circonvenibili. Oltre ai 243 errori compiuti da Olindo descrivendo ciò che avvenne quella sera, abbiamo intercettazioni ambientali, mai considerate, che attestano che Rosa e Olindo per giorni dopo il delitto parlavano fra di loro da innocenti. Quindici esperti dicono che quelle su cui si basa la condanna sono false confessioni acquiescenti dettate, magari involontariamente, dalle promesse formulate a Olindo».
11 dicembre 2006
La strage di Erba risale all’11 dicembre 2006. In soli 22 minuti, a partire dalle ore 20, con armi mai trovate – si scriverà di spranga e coltello poi gettati in un cassonetto – vengono uccisi con ferocia Raffaella Castagna, il figlio Youssef Marzouk di soli 2 anni, la nonna del piccolo Paola Galli e una vicina di casa Valeria Cherubini, accorsa dopo le fiamme divampate in via Diaz. Si salverà, solo per caso il marito Mario Frigerio, gravemente ferito alla carotide e unico testimone oculare della strage. Gli investigatori ascoltano Olindo Romano e Rosa Bazzi come testimoni il 12 e il 20 dicembre. Poi arriva il fermo di polizia l’8 gennaio 2007. Contro di loro – subito intercettati – c’è la macchia di sangue trovata il 26 dicembre sull’auto di Olindo, quindi il riconoscimento (2 gennaio) da parte di Frigerio – ricoverato all’ospedale Sant’Anna di Como – di Olindo come del suo aggressore. Loro hanno un alibi: sono stati a un McDonald’s a mangiare. E mostrano uno scontrino.
Il ruolo di Luciano Gallorini
«Siamo stati noi», dicono il 10 gennaio 2007. Caso chiuso a leggere le sentenze che a quelle tre prove dedicano decine di pagine – ben 70 per le confessioni, 23 per il riconoscimento e 21 per la macchia di sangue – e che il sostituto procuratore prova a smontare – bisognerà passare il vaglio di Brescia – nella richiesta di revisione lunga 58 pagine. Ora nell’istanza si mette in dubbio la verità di quel processo. E chi la raccolse, sentendo Frigerio mentre era ancora in ospedale. Il carabiniere Luciano Gallorini, sentito ieri dall’AdnKronos, respinge le accuse. L’allora comandante della stazione dei carabinieri, oggi in pensione, è tra i primi ad arrivare in via Diaz la sera dell’11 dicembre 2006 ed è protagonista delle indagini. In ospedale incontra l’unico sopravvissuto della mattanza Frigerio. Ma la sua annotazione di servizio del 20 dicembre 2006 è costellata di stranezze, secondo l’istanza. Non solo: viene indicato come «l’onnipresente» nell’interrogatorio ai coniugi Romano, reso dagli indagati nell’immediatezza del fermo.
Mario Frigerio e il ricordo del carabiniere
«Come risulta agli atti, io ho sentito i coniugi Romano la notte stessa dell’evento, successivamente alla perquisizione. Noi facciamo la perquisizione e in quella occasione li abbiamo accompagnati in caserma e li abbiamo sentiti a spontanee dichiarazioni testimoniali su quello che avevano fatto. Quei verbali li abbiamo mandati in procura e quella è stata l’unica occasione in cui ho parlato con i coniugi Romano», spiega. L’incontro con Frigerio è legato a un’altra esigenza investigativa. «Nel pianerottolo dell’androne dove fu rinvenuto il corpo senza vita di Raffaella Castagna erano stati trovati alcuni oggetti, tra cui un ponte dentale e bisognava risalire al proprietario. Fui autorizzato dal pm a un colloquio investigativo: il colloquio è tutto registrato, anche se è difficilmente udibile perché Frigerio parlava male» a causa della ferita alla gola inferta dall’aggressore.
La registrazione
«Nella registrazione dico che avrei ripetuto quello che Frigerio diceva per rendere chiaro il colloquio. Il colloquio durò un tempo sufficientemente lungo, è registrato, e rientrato in sede ho redatto un’annotazione con le modalità del colloquio e quello che Frigerio disse, cioè ‘poteva essere l’Olindo’. Nel momento in cui io ho udito questa cosa interruppi il colloquio, perché ritenni la cosa così importante che era necessario che il pm sapesse e valutasse», spiega Gallorini. «Ciascuno ha diritto di dire quello che ritiene opportuno, ma in tutta questa storia mi sorprende che si inseriscano elementi di falsità. Si possono attaccare le indagini, ma non le persone e la loro correttezza: non ho suggerito o convinto nessuno. Io ho servito l’Arma per 48 anni e questo non si fa per cercare carriera, ma perché si ama il proprio lavoro, si cerca e si crede nella giustizia», conclude Gallorini.
Lo sfogo di Pietro e Beppe Castagna
Sui social i fratelli Pietro e Giuseppe Castagna che nella strage di Erba hanno perso la madre Paola Galli, la sorella Raffaella e il nipote Youssef Marzouk di 2 anni, hanno scritto ieri un messaggio sui social network. «Era l’ottobre del 2018, avevo scritto questo. Speravo fosse finita ma ci risiamo. Noi non diremo nulla. Non parleremo più con giornali o altro. Questo era e rimane il nostro pensiero», esordiscono. E ancora: «Purtroppo la superficialità è meno faticosa del pensiero consapevole. Ed essendo quindi più facile, trova spesso terreno fertile in persone incapaci di capire che qualcuno sta vendendo delle menzogne spacciandole per verità, manipolando, omettendo, ricucendo ad arte. Perché è più facile farsi convincere che capire». Per loro dopo tre gradi di giudizio resta il dolore dei parenti «con una vita o quello che ne rimane di essa».
Un meccanismo ingiusto
Sentono di lottare contro un meccanismo «profondamente ingiusto – premeditazione – movente – confessioni (che io chiamerei rivendicazioni) – testimone oculare – tracce ematiche -intercettazioni – ammissioni annotate in carcere potreste anche non essere convinti di qualcuna di queste cose, ma non potete credere che tutto sia davvero frutto di un complotto». Infine, scrivono Pietro e Beppe Castagna, «non sta a noi, né difendere la procura, né gli inquirenti, né il loro operato, consentiteci di difendere però la verità, che per noi è solo una, consentiteci di essere indignati e increduli nel sentire gente che definisce i colpevoli come innocenti vittime di una giustizia sommaria e faziosa, definiti addirittura come ‘un gigante buono e una gracile signora’». Che «hanno ucciso brutalmente nostra madre, nostra sorella, nostro nipotino, la signora Valeria, hanno tentato di uccidere il signor Mario, spezzando pochi anni dopo la sua vita e la vita di nostro padre, facendo vivere a me e a Beppe, a Elena e Andrea Frigerio un incubo continuo. La superficialità è meno faticosa del pensiero consapevole e chi sfrutta questa debolezza di molti solo per fare audience o per crearsi carriere o visibilità, è un vigliacco».
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