Il 25 aprile del partigiano Bruno Segre: «Così sfuggii ai fascisti e alle carceri. Oggi nell’Italia nostalgica temo la svolta presidenzialista» – L’intervista
All’alba dei 105 anni, la mente di Bruno Segre corre come l’acqua di un fiume. Non in piena, come vuole stanca metafora. Ma coi ritmi cangianti di un flusso che alterna pianure, discese ripide, eruzioni improvvise. «Son carico di ricordi perché ho la mente vigile, ricordo tutto – ci confessa al termine della lunga chiacchierata nella sua casa torinese -: tutti gli episodi, le violenze, le fughe, i nascondigli, i bombardamenti, le notti di luna». Salito in montagna nei mesi angosciosi che separarono il baratro dell’8 settembre 1943 alla Liberazione di un anno e mezzo dopo, Segre non è uno di quei partigiani rimasti inchiodati al “mito” di quella stagione unica della vita, di una generazione e del Paese. Dopo, nei successivi otto decenni, è stato dieci, cento altre cose: giornalista e avvocato, militante politico e consigliere comunale. E padre, nonno, ora bisnonno. In ognuno di quei ruoli, spesso anche in due o tre di essi tutti assieme, essenzialmente un animatore di battaglie – sempre diverse e nuove. Ma che i valori della Resistenza alla base dell’Italia democratica siano rimessi in discussione – per di più da chi occupa gli scranni più alti delle istituzioni repubblicane – proprio non può tollerarlo. «Sono degli analfabeti della democrazia, gente che non dimentica il passato», tuona sui nuovi detentori del potere dallo scorso autunno. Non ce l’ha con Giorgia Meloni, cui riconosce tatto e intelligenza politica – ma con tanti dei suoi luogotenenti, certamente sì. A partire da chi più di tutti nelle ultime settimane ha giocato col fuoco della Storia, senza esser in grado di maneggiarla: «Il presidente del Senato è un coglione integrale», fulmina senza giri di parole Ignazio La Russa: «ignorante, fazioso, modestissimo, tutt’al più poteva fare il consigliere comunale». Affronto istituzionale? Negazione del politically correct? Bazzecole per chi inaugurò l’era della ritrovata libertà seguita al 25 aprile affrontando da pochi metri di distanza il Re (quello di maggio, Umberto I): «Scusi ma lei per chi vota, per la monarchia o la Repubblica?», gli chiese incontrandolo in piazza Castello, a Torino, nel maggio 1946, a pochi giorni dal referendum. Preso alla sprovvista, il Re se la squagliò. Lunga era stata la strada – per Segre e per tutto il Paese – per arrivare a conquistare tale e tanta libertà. E troppo sofferta per poter permettere che l’Italia dei suoi pronipoti – 80 anni dopo – torni a imboccare la strada sbagliata. Di qui la ferma opposizione a ogni progetto di riforma della Costituzione in senso presidenzialista. Un «pericolo gravissimo», ammonisce l’avvocato-partigiano: «significa concentrare il potere in una sola persona, un nuovo Duce, in un Paese dove l’eredità di Mussolini tuttora permane».
Avanti e indietro col pensiero, su e giù per la Storia, Segre ricostruisce con Open la sua, di storia – così simile e così diversa da quelle di tanti altri coetanei trovatisi a diventare eroi per caso. Sopravvissuti fino alla vittoria e oltre alcuni; catturati, deportati o uccisi dai nazifascisti altri – la differenza quasi sempre essendo decisa dal fato. Come ricorda lui stesso quando rievoca la sua casualissima non-morte quando, scoperto con documenti falsi in una retata nel settembre del ’44, fu preso di mira con tre spari da un agente dell’Ufficio Politico Investigativo. Due finirono nel muro, il terzo lo raggiunse all’altezza del gluteo: dove un portasigarette di metallo nel taschino si erse a provvidenziale micro-scudo. Sfuggì alla morte, non alla cattura, sbattuto per due mesi nel carcere per gli oppositori politici di Via Asti. Non era la sua prima volta nelle celle del Fascio. La prima, meno di tre anni prima, era stata alle Nuove, le carceri “ordinarie” di Torino. «Disfattismo politico», il capo d’accusa, per aver osato imbrattare i manifesti fascisti all’Università oltre che aver aggiunto sistematicamente una “O” al fondo delle scritte sui muri “W IL RE”. A la guerre comme à la guerre. Una “passione”, questa di Segre per i monarchi di Casa Savoia, basata sui fatti. «Vittorio Emanuele III era più colpevole di Mussolini», scrive nella sua autobiografia-intervista Non mi sono mai arreso (N. Ivaldi, Editrice Il Punto – Piemonte Bancarella): «Anzitutto perché aveva giurato fedeltà allo Statuto, che tradì miseramente. Poi per non aver usato le leve del potere per fermare l’ascesa di Mussolini. Infine, accettò anche l’aggressione imperialista all’Europa». Senza contare la firma apposta sulle peggiori nefandezze del Ventennio: a cominciare dalle leggi razziali del 1938, che colpirono anche lui, pur ebreo soltanto “a metà” (da parte di padre) e mai iscritto alla locale Comunità ebraica in ossequio alla sue convinzioni laiche e anti-religiose. Quanto all’ultimo dei monarchi Savoia, quel Re Umberto incontrato fugacemente nel dopoguerra, il giudizio non è più lusinghiero.
Nato a Torino il 4 settembre 1918, «quando ancora tuonavano i cannoni della Prima guerra mondiale», Segre le armi le prese in mano – come tanti suoi coetanei – a 25 anni, aggregatosi alle bande partigiane del cuneese dopo l’8 settembre del ’43. Con l’esercito allo sbando e i tedeschi in rapida avanzata, si unì agli azionisti che combattevano sulle montagne della Val Varaita. Ritornò in zona, dopo la discesa a Torino, la cattura e la prigionia, all’inizio del 1945. Aggregandosi questa volta alle formazioni dislocate nella zona di Pradleves, in Val Grana. Il clima era cambiato, nel frattempo, e la vittoria era alle porte. E il 26 aprile, col fremito della Liberazione misto alla paura, Segre ridiscese coi suoi compagni a Caraglio. Poi Cuneo. E infine, la libertà messa al sicuro e la guerra alle spalle, nella sua Torino. Per l’Italia e l’Europa, dovevano seguire decenni di pace e di sviluppo. Per Segre, una vita professionale ricca di impegni e di battaglie. Giornalista in erba, poi avvocato, fondatore e animatore per oltre 70 anni della rivista L’incontro, militante socialista e consigliere comunale a Torino, dai suoi podi reali e cartacei combatté per le cause civili in cui credeva per rendere l’Italia più moderna: dall’obiezione di coscienza al divorzio, passando per le mille campagne contro i privilegi della Chiesa e gli oscurantismi tutti, per i diritti e la pace. Parola grande e indimenticata, ma diventata sempre più difficile da pronunciare nell’Europa riscopertasi fragile dopo l’aggressione russa dell’Ucraina. Questione la cui soluzione divide l’universo progressista, i partigiani, e in fondo la stessa coscienza civile del vecchio, giovanissimo Bruno Segre.
Credit foto e video – Riprese: Simone Disegni / Montaggio: Alessandra Mancini
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