Dalle origini del sushi al naufragio che ha portato il baccalà a Venezia: la storia del cibo tra migrazioni e climate change
La storia del genere umano è legata a doppio filo con quella del cibo. Nel corso dei secoli, filosofi, poeti e scrittori hanno cercato di cogliere il significato più profondo di questo rapporto. Da Ludwig Feuerbach, che a metà Ottocento coniò il celebre detto «Siamo quello che mangiamo», a Virginia Wolf, secondo cui «non si può pensare bene, amare bene e dormire bene senza aver mangiato bene». Insomma, il cibo non è mai stato solo la risposta a un bisogno fisiologico, ma una fonte inesauribile di piacere e ispirazione. Ma se il cibo definisce chi siamo, è anche vero che le nostre abitudini a tavola – così come la nostra identità – sono in continua evoluzione. Un processo che va avanti da millenni, di pari passo con migrazioni, contaminazioni culturali, innovazioni industriali e cambiamenti delle condizioni meteorologiche.
La traversata atlantica del pomodoro
Sulla tavola degli italiani oggi ci finisce un po’ di tutto: dalle ricette più antiche della nostra penisola ai piatti tipici di Paesi lontani. Eppure, anche gli alimenti più comuni possono nascondere storie poco conosciute. Uno dei casi più emblematici è quella del pomodoro, uno degli ingredienti protagonisti della dieta mediterranea. Il celebre frutto rosso – perlomeno nella forma con cui lo conosciamo oggi – viene da molto lontano. In particolare, dal Sud America e dal Centro America. Sono i Maya i primi a coltivarlo, seguiti dagli Aztechi. Dopo il successo militare del condottiero spagnolo Hernán Cortés, il pomodoro viaggia per la prima volta dal Messico in Europa, con Spagna e Italia che diventano i primi due Paesi del vecchio continente a conoscere il pomodoro. E sono soprattutto le regioni del Sud, dove l’influenza borbonica è più forte, a coltivare le prime piante e sperimentare nuove varietà.
Il «naufragio del baccalà»
Se l’importazione del pomodoro è il risultato di nuove rotte commerciali, quella del baccalà è il frutto di uno scherzo del destino. Quello che oggi viene considerato uno dei piatti forti della cucina veneziana viene in realtà da un naufragio. Corre l’anno 1432 quando Pietro Querini, membro del Consiglio maggiore della Serenissima, parte con il suo vascello mercantile verso le Fiandre. A bordo ha un equipaggio di 68 uomini e un carico di 500 tonnellate, tra vino, spezie e cotone. Una notte la barca viene colpita da una violenta tempesta, che porta Querini e una ventina di altri uomini alla deriva. I superstiti vengono soccorsi da alcuni pescatori dell’arcipelago norvegese delle Lofoten. Ed è lì che il mercante veneziano scopre per la prima volta il baccalà e lo stoccafisso. A raccontarlo è lo stesso Querini in una relazione conservata oggi nella Biblioteca apostolica di Venezia: «Vivevano in una dozzina di case rotonde, con aperture circolari in alto, che coprono con pelli di pesce; loro unica risorsa è il pesce che portano a vendere a Bergen. […] Prendono fra l’anno innumerabili quantità di pesci, e solamente di due specie: l’una, ch’è in maggior anzi incomparabil quantità, sono chiamati stocfisi; l’altra sono passare, ma di mirabile grandezza, dico di peso di libre dugento a grosso l’una».
La rivoluzione industriale (e alimentare)
Fino alla metà dell’Ottocento la dieta italiana continua a limitarsi in gran parte a cereali, legumi, verdura e formaggi. Di carne se ne mangia in quantità molto limitate, così come per i dolci, riservati solo per le occasioni speciali. I progressi della chimica raggiunti durante la Seconda rivoluzione industriale cambiano radicalmente anche le abitudini alimentari. Louis Pasteur suggerisce un nuovo procedimento per conservare gli alimenti – la pastorizzazione – che si somma ai progressi sul processo di inscatolamento. Le conseguenze sono subito evidenti: anche i cibi più deperibili cominciano a essere trasportati su lunghe distanze, mentre l’autoproduzione lascia il posto al cibo confezionato, a partire dalla pasta di semola e dal pane. Queste innovazioni danno vita anche a tante imprese alimentari, chiamate a rispondere alle nuove esigenze delle classi più benestanti, che introducono nella propria dieta sempre più prodotti: cioccolata, liquirizia, caramelle, caffè.
La storia del sushi e dell’hummus
Nella seconda metà del Novecento, sulla scia della globalizzazione, le contaminazioni culturali tra le cucine di tutto il mondo raggiungono livelli mai visti prima. Una delle new entries più di successo è il sushi, che arriva in Italia a fine anni Ottanta ma è solo nel nuovo millennio che raggiunge davvero il successo. Al contrario di quanto si potrebbe pensare, il sushi non viene dal Giappone, ma dalla Cina. Le sue origini risalgono addirittura al IV secolo, quando inizia a diffondersi un metodo di conservazione molto particolare. Il procedimento prevede di eviscerare il pesce, salarlo e metterlo in mezzo al riso cotto, che permette di ridurre l’acidità dell’ambiente. Prima di essere servito in tavola, il riso veniva eliminato e si mangiava solo il pesce. Sono i Giapponesi i primi a importare la tradizione e modificarla a proprio piacimento, iniziando a servire il pesce per la prima volta anche con il riso fermentato.
E sempre dall’Asia viene un altro dei prodotti più in voga in Italia negli ultimi anni: l’hummus. Le origini della salsa a base di ceci e sesamo sono al centro di una piccola disputa tra diversi Paesi mediorientali che ne rivendicano la paternità. Nel 2008, il Libano è arrivato addirittura a portare in tribunale lo Stato di Israele, accusato di volersi impossessare della sua tradizione culinaria. Nonostante questa e mille altre diatribe, l’hummus è diventato un simbolo di pace tra i Paesi del Medio Oriente, apprezzato sia da israeliani che da palestinesi. Un piatto rivendicato da tutti ma di proprietà di nessuno, che riassume nel suo piccolo tanti aspetti della storia del cibo.
La minaccia del climate change
In tempi più recenti, le nostre abitudini alimentari sono state stravolte da un’altra variabile: i cambiamenti climatici. Temperature sempre più alte ed eventi atmosferici sempre più imprevedibili hanno costretto la filiera del food a evolversi per stare al passo con i tempi. L’innovazione tecnologica ha dato una grande mano al settore, che ora sembra dirigersi verso una direzione ben precisa: produrre cibi nutrienti con un minore impatto ambientale. È il caso delle farine di insetti o della carne coltivata, che tanto hanno fatto discutere negli ultimi mesi in Italia, ma anche di tecniche di produzione innovative e resilienti. Un esempio? Il vertical farming, un sistema di coltivazione in ambiente controllato che si sviluppa su serre verticali. I vantaggi sono evidenti: risparmio d’acqua del 90% rispetto all’agricoltura tradizionale, migliore resa per metro cubo e accorciamento della filiera. I cambiamenti climatici, insomma, non cambiano solo le nostre abitudini alimentari, ma anche le stesse tecniche di produzione e coltivazione di ciò che portiamo tutti i giorni in tavola. È questo il cibo del futuro: una nuova generazione di ingredienti e di alimenti, che – di fronte alla minaccia dei cambiamenti climatici – non possono più ignorare l’aspetto della sostenibilità.
Credits foto di copertina: Unsplash
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