Elezioni in Turchia, la scrittrice Koca: «Io sono fuggita, ma ho immenso rispetto per i giovani che lottano» – L’intervista
Ha lasciato la Turchia per «ricominciare». Nazli Koca è una scrittrice e poetessa turca di 32 anni. La rottura con il Paese euroasiatico le ha permesso di «respirare per la prima volta», racconta a Open. A 24 anni si è trasferita a Berlino, dove la comunità turca è una delle più numerose al mondo. Un lavoro da addetta delle pulizie, lavapiatti e pure libraia le hanno consentito di mantenersi. Poi l’approdo negli Stati Uniti. Prima a Chicago, poi New York e ora a Denver, in Colorado, dove insegna scrittura creativa all’università. «È stato un lungo viaggio», dice. Naz, così la chiamano i suoi amici, ha da poco pubblicato il suo romanzo d’esordio: The Applicant (Grove Press / Atlantic Monthly Press). È la storia di Leyla, e pure un po’ la sua, una ragazza turca che lascia il Paese anche alla scoperta di sé stessa. La scrittrice sa esattamente cosa significhi vivere in Turchia. «La migliore possibilità di sopravvivenza nel Paese al giorno d’oggi – confessa – è la sottomissione». Una sottomissione lunga vent’anni. Da quando il presidente Recep Tayyip Erdoğan è salito al potere. Ma ora le cose potrebbero cambiare. «In meglio o in peggio», sottolinea Naz. Domenica 14 maggio gli elettori sono, infatti, chiamati a esprimersi sul futuro leader. Tra continuità o cesura rispetto al passato. Tra il presidente in carica, “il sultano” da una parte e il leader dell’opposizione, Kemal Kılıçdaroğlu, designato da una coalizioni di forze politiche riunita nel cosiddetto “Tavolo dei sei”, dall’altra. Il risultato è tutt’altro che scontato.
Hai lasciato il tuo Paese nel 2014. Cosa significa per un giovane che non ha mai conosciuto una leadership diversa da quella di Erdogan vivere in Turchia?
«A scuola ci dicevano spesso che la Turchia collega l’Oriente e l’Occidente. Così, io, tante volte ho pensato di essere nata con il dovere, ma anche il dono, di appartenere ed essere entrambe la facce di una stessa medaglia. «Siete il meglio di ciascuna parte», ci ripetevano gli insegnanti. Tuttavia, questo significava che dovevamo vivere in un costante stato di paranoia: tutti volevano dividerci e conquistarci. E questa paranoia impediva alla maggior parte di noi di vedere che in realtà eravamo da tempo divisi e conquistati. Per le donne poi, su base quotidiana, la paranoia raddoppiava e triplicava per le minoranze. Ogni volta che venivamo molestate per strada, maltrattate in casa o guardavamo il telegiornale che riportava lo stupro o l’omicidio di una donna, la paranoia aumentava».
Ti senti in pericolo in Turchia?
«Vivere in Turchia è pericoloso se non si seguono le regole. Sia prettamente legali, ma anche quelle sociali. “Non indossare questo”, “Non camminare in quel modo”, “Non dire genocidio armeno. Non esiste”, “Non dire Kurdistan. Non pensarci nemmeno!”. Un giovane della Gen Z o millennial in Turchia ha passato tutta la sua vita a combattere questi problemi nella sua testa o nei circoli ristretti, spaventati o messi a tacere dal governo. Perciò ho un immenso rispetto e ammirazione per i milioni di giovani che vivono ancora in Turchia e chiedono a gran voce una vita migliore. Che lottano per i diritti nel bel mezzo di una crisi economica paralizzante. Statisticamente, la migliore possibilità di sopravvivenza nella Turchia di oggi è la sottomissione».
Nel tuo romanzo la protagonista lascia la Turchia per trasferirsi a Belino. Lì capisce che allontanandosi dal suo Paese, non parlando e non pensando in turco il suo passato non avrebbe dettato il suo futuro? Vale anche per te?
«Il mondo categorizza le lingue e persino le letterature secondo un sistema basato sugli stati-nazione e sulle loro storie imperiali. Anche tutte le minoranze in questi spazi costruiti parlano spesso di lingua in termini di luogo. Ma le lingue funzioneranno come confini e le parole come guardie di frontiera finché continueremo a pensare in questo modo. Ad esempio in turco la parola “lingua” intesa come organo e “lingua”, ovvero l’insieme di convenzioni necessarie per la comunicazione, si traduce alla stessa maniera: dil. Ma invece di farci capire che il linguaggio è una parte del nostro corpo, questo spesso ci fa credere che anche le nostre parti del corpo appartengono a un luogo e alla sua lingua. Ci fa sentire sottoposti alle regole dello Stato che governa il luogo che è il nostro corpo. Anche in inglese e in molte altre lingue, l’espressione mother-tongue(madrelingua) implica che la nostra lingua sia legata a quella di nostra madre. E sì, le mamme sono fantastiche ma non sempre parlano la lingua che noi vorremmo. Non tutte le madri parlano la lingua dell’amore, della comprensione o della responsabilizzazione. La realtà è che la maggior parte delle lingue delle nostre madri sono state distorte dalle loro di madri. Quindi credo che dovremmo fare molto di più che lasciare la nostra terra e scrivere in inglese se vogliamo liberare il nostro futuro, il nostro corpo e la nostra lingua dai retaggi matrilineari distorti».
Credi che le lotte di classe, le battaglie contro il patriarcato, le libertà o più “semplicemente” raggiungere i propri obiettivi – nel tuo caso, diventare scrittrice -, non siano possibili in Turchia?
«Sono possibili e avvengono, ma a costi troppo alti per la maggior parte delle persone. La stragrande maggioranza delle persone non ha le risorse o una famiglia che le educhi a credere che meritano di essere libere o di essere coraggiose o un governo che non le minacci, le arresti o le spinga all’esilio per aver detto la propria opinione».
Come vengono trattati gli intellettuali che fanno opposizione nel tuo Paese?
«Nell’ultimo decennio sono stati arrestati dalle autorità più scrittori di quanti ne possa contare. Una di loro è Asli Erdogan. È tra i fortunati che sono stati rilasciati dalla detenzione preventiva con il sostegno di organizzazioni internazionali e sono riusciti a lasciare il Paese. Come molti altri esuli politici turchi, vive a Berlino, dove è salita recentemente agli onori della cronaca per il discorso pronunciato in manette durante una manifestazione di protesta contro le sentenze di Gezi (del 2013 e contro Erdogan, ndr). Un altro è il regista Emin Alper, che vive in Turchia e che ha pubblicato nel 2022 Burning Days, un thriller politico allegorico con sfumature queer. Il Ministero della Cultura e del Turismo turco in quel caso ha chiesto la restituzione dei finanziamenti ai produttori del film dopo averne preso visione. Queste due storie sono circolate ampiamente tra gli intellettuali di sinistra e i liberali in Turchia e sono arrivate ai media internazionali, ma dubito che la base fedele di Erdogan abbia mai sentito parlare di Asli Erdogan o di Emin Alper e del loro lavoro. E Alper, e persino Asli Erdogan, se la sono cavata facilmente rispetto a tanti scrittori, artisti e poeti senza nome che sono ancora in prigione perché non hanno mai avuto la possibilità di farsi un nome importante. Troppi studenti e attivisti, soprattutto nel Sud-Est, lottano per la giustizia con poche risorse. Ma la maggior parte delle persone che si oppongono a Erdogan hanno avuto troppa paura di parlare per molto tempo. Ma ora non più, non dopo il terremoto di inizio febbraio».
Il disastroso sisma che ha colpito la Turchia è uno dei temi, insieme alla crisi economica, che determineranno in parte le elezioni di domenica 14 maggio. Tu hai votato?
«Ho votato due settimane fa perché vivo negli Stati Uniti. Ho aspettato in fila per tre ore al consolato turco di Los Angeles. C’era una fila enorme, ma tutti sembravano felici di aspettare».
Pensi che dopo queste elezioni possa cambiare qualcosa?
«Tutto cambierà dopo le elezioni di domenica, in meglio o in peggio. Se Erdogan dovesse vincere di nuovo, molte persone dovranno lasciare il Paese. Chi non potrà farlo, subirà le conseguenze del rafforzamento della sua autorità, della sua politica divisiva e delle sue politiche finanziarie. Questi cambiamenti inizieranno già la prossima settimana o il prossimo mese. Se perderà, e per la prima volta penso che ci sia una reale possibilità che lo faccia, dovremo lavorare molto duramente per riparare i danni degli ultimi vent’anni e affrontare verità ancora più vecchie e scomode su noi stessi come società. Questo tipo di cambiamento richiederà però molto più tempo».
Nel tuo romanzo ci sono diversi riferimenti all’opera di Elena Ferrante, L’amica geniale. Cosa accomuna la tua protagonista Leyla a Lisa e Lenù della scrittrice italiana?
«Come Lila, Leyla è cresciuta in un contesto di violenza domestica, che si è manifestata con la dissoluzione dei margini per Lila, e con l’uso di droghe e alcol per Leyla. Come Lenù, Leyla ha pensato che allontanarsi da casa potesse salvarla dal destino della madre. Tutte e tre hanno trovato e perso la voce più volte contro il rumore violento della propaganda fascista, il maschilismo e l’ipocrisia della sinistra e il dubbio di sé. Spesso hanno cercato la loro voce nei posti sbagliati. Lenù fuori dal dialetto del suo quartiere e dagli uomini “sofisticati”, Leyla in inglese, sulla pista da ballo e nei letti degli sconosciuti, Lila nell’abnegazione e nel conformismo dei ruoli. Le loro storie sono piene di rimpianti. Le loro voci sono amare. E io le amo tutte e tre».
La tua protagonista ha fatto pace con il suo passato in Turchia e “l’incerto presente”? E tu?
«C’è un atto di pace in alcune delle annotazioni del diario di Leyla, comprese le ultime. Ma è sempre solo un gesto. Anche se il suo diario è scritto nell’ordine lineare dei giorni, la sua visione del mondo, la comprensione di se stessa e persino il modo in cui vive la vita sono tutt’altro che lineari. Un momento prima Leyla racconta sul suo diario della sua famiglia in Turchia, mentre in sottofondo passa una soap opera turca; un momento dopo, io – Naz – sono negli Stati Uniti a scrivere queste parole da tradurre in italiano mentre anche la Turchia cerca di riconciliarsi con il suo passato».
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