Il divulgatore Iannantuoni: «La carne coltivata fa paura? Capisco, ma ecco perché ne abbiamo bisogno» – L’intervista
I più famosi sono anche i più dibattuti: la carne coltivata e gli insetti. Ma quella dei cibi del futuro è una categoria molto più ampia che comprende prodotti che già si trovano comunemente sugli scaffali dei supermercati, come i sostituti della carne prodotti con proteine vegetali. Altri invece potrebbero arrivare nei prossimi anni. Come le specie animali e vegetali commestibili che si diffondono nei territori europei a causa del cambiamento climatico, i cibi prodotti con gli scarti delle coltivazioni, e gli alimenti prodotti a partire da numerose varietà di alghe e funghi. Cos’hanno in comune tutti questi cibi? A causa dei cambiamenti ecologici, o in risposta ad essi, stanno arrivando o potrebbero arrivare sulle nostre tavole. Di questi alimenti e di come sta cambiando la cultura dell’alimentazione, Open ha parlato con Mattia Iannantuoni. Un passato da ricercatore sull’innovazione sostenibile al Politecnico di Milano, oggi creatore di contenuti con focus su cambiamento climatico e biodiversità, e impegnato nel progetto cibi del futuro di Tuorlo Magazine.
Come si definisce un novel food?
«Alcuni dei cibi che mangeremo in futuro e che già mangiamo vengono chiamati novel food. Con questo termine ci si riferisce a tutti quegli alimenti che non sono stati consumati in misura significativa nell’Unione Europea prima del 15 maggio 1997 (quando è entrata in vigore la prima legislazione europea sui nuovi alimenti, ndr). È una distinzione temporale arbitraria. Una linea tracciata con la prima ondata di sforzi legislativi per regolare cibi che iniziavano ad essere sempre più presenti in Europa. Si è quindi cercato un modo di regolamentare i nuovi alimenti, che vengono chiamati appunto “novel food”».
I novel food sono sicuri?
«Per essere commercializzati, devono passare attraverso rigidi controlli. L’Ue prima di farti mangiare qualcosa vuole essere certa che sia sicura, che non causi reazioni allergiche eccessive e che possa fare parte dell’alimentazione umana. Paradossalmente, non è detto che alimenti come le fragole, a cui molte persone sono allergiche, avrebbero passato questi test se fossero stati introdotti dopo il 1997. Proprio perché è in attesa di queste valutazioni, ad esempio, la carne coltivata ancora non può essere commercializzata nell’Ue, mentre a Singapore è già possibile trovarla in alcuni ristoranti e rivenditori. Lo stesso era vero per le farine di insetti, che fino a poco tempo fa non erano ancora state approvate».
Ma quindi le preoccupazioni sulla sicurezza della carne coltivata hanno senso?
«Al momento non c’è prova che possa fare male. Ma è giusto che per averne la certezza si facciano tutti i controlli necessari prima di venderla. In generale, penso sia normale che le persone si preoccupino più della novità e meno di ciò che conoscono già. Non ci si interroga su ciò che mangiamo abitualmente eppure della nostra dieta fanno parte anche alimenti che fanno certamente male. Come le carni rosse processate o l’alcol. Cognitivamente le persone ci danno meno peso perché conoscono già gli effetti di questi prodotti, per quanto gravi possano essere. Il cambiamento spaventa. In linea di principio, comunque, con la carne coltivata si dovrebbero evitare tutti i rischi di contaminazione virale e batteriologica tipica della carne allevata».
Chiaro, ma i novel food a cosa servono?
«La maggior parte dei cibi che nascono in relazione ai cambiamenti climatici risponde alla necessità di assicurare il fabbisogno proteico senza affidarsi agli animali. La produzione di cibo costituisce una grande parte dell’impatto umano sull’ambiente, e passare a diete a base vegetale è tra le singole azioni individuali che possono fare la maggiore differenza nell’impronta ecologica di ciascuno di noi. Non c’è solo la questione delle emissioni di CO2 e di metano. Parliamo anche del consumo di suolo, di fertilizzanti che inquinano le falde e causano l’eutrofizzazione degli ambienti marini – ossia fanno proliferare eccessivamente le alghe, che causano a loro volta una maggiore attività batterica che consumando l’ossigeno uccidono i pesci. I vegani ti direbbero che una dieta vegetale è più che sufficiente ad apportare tutte le proteine di cui il corpo umano ha bisogno. E forse è vero. Ma prova a fare lo stesso discorso a chi a fine serata vuole solo mangiarsi un hamburger. È fondamentale che le persone mangino molta meno carne di ora, e alcuni dei nuovi cibi possono agevolare questa transizione».
In che modo?
«Le persone sono abituate a una certa cosa e non tutti sono disposti a fare un taglio. Se fai un hamburger con le proteine di piselli, con la carne coltivata o mescolando carne vera con proteine vegetali, è comunque un hamburger, ma il suo impatto ambientale è minore. Così come quello etico. Viviamo in un mondo sempre più ricco dove un numero sempre maggiore di persone è abituato a mangiare molte proteine animali e queste alternative possono aiutare».
Questi prodotti servono a ridurre l’impatto ambientale della nostra alimentazione?
«In molti casi sì. Ma il binario è doppio. Nel senso che spesso l’esistenza stessa di alcuni nuovi cibi è resa possibile dal cambiamento climatico, come ad esempio le specie ittiche aliene – ovvero provenienti da altri mari – che stanno entrando nel Mediterraneo. Prendiamo il caso del Polesine, dove l’acqua del mare risale sempre di più nell’alveo del Po creando un ambiente salmastro. Non è improbabile che lì le colture tradizionali, che soffrono con l’innalzarsi del cuneo salino, lascino spazio ad alghe alimentari, da cui ricavare proteine o altri nutrienti. Oppure si può modificare geneticamente la coltura per renderla più resistente a sale e siccità».
Però alcuni cibi del futuro sono un puro sfizio? Ad esempio le meduse. Che vantaggio c’è a mangiare un animale che è al 95% acqua?
«Di meduse nel Mediterraneo a causa dei cambiamenti del clima ce ne sono sempre di più, per alcuni imparare a mangiarle è una soluzione. Ma capisco che per altri possa sembrare uno sfizio. È difficile cambiare le abitudini alimentari delle persone. Il cibo è una questione che rimane sottopelle. C’è chi valuta come prima cosa l’impatto ambientale, chi il gusto, chi il prezzo, chi i fattori nutrizionali e chi quelli affettivi. Ci sono tante aree del nostro cervello che concorrono alla scelta di cosa mangeremo. E pochi a livello politico si vogliono esporre sul cambiamento delle nostre scelte alimentari. Vedi le recenti mosse del governo contro la farina di grilli o la proposta di bandire la carne da laboratorio preventivamente; ma anche il fatto che su 27 COP sul clima, soltanto nell’ultima si è iniziato a parlare di cibo e diete sostenibili. Nonostante il sistema alimentare costituisca un terzo delle emissioni globali».
Ma questa scelta può essere influenzata…
«Certo. Nelle mense scolastiche e lavorative, ad esempio, si può incentivare la riduzione dei prodotti di origine animale aumentando le opzioni vegetali nei menù ed esaltandone le caratteristiche intrinseche piuttosto che per l’essere alternative alla carne. La pasta al pomodoro è uno dei piatti più tradizionali della cucina nostrana, prima che essere vegana. Esperimenti hanno dimostrato che quando vengono esposte sugli stessi scaffali della carne tradizionale, le alternative a base vegetale vendono di più. Rimanendo sul caso della carne plant-based, ci sono prese di posizione antagoniste. Ad esempio con le azioni di lobbismo da parte dell’industria della carne perché l’Ue vieti di usare il termine “carne” su questi prodotti. O anche “latte” per riferirsi al latte vegetale, come quello di soia, riso, e simili. Ci sono state azioni di lobbismo da parte dell’industria della carne per far sì che i reparti rimanessero separati».
«In Italia il “non latte” a base vegetale ha l’Iva al 22%, mentre quella del latte vaccino è al 4%. Non è un modo per influenzare le scelte? In questo contesto di protezionismo del conosciuto, sono le aziende a portare avanti l’innovazione. Mentre c’è chi logicamente difende la propria posizione. Molti imprenditori capiscono che in futuro potrebbero non esserci più terreni da coltivare per nutrire il bestiame, pesci da pescare nel mare o acqua per irrigare. E tra questi ci sono anche colossi della carne, che investono nelle alternative al loro stesso prodotto. Così come molti cibi rischiano di sparire a causa del cambiamento climatico: caffè, cioccolato, l’uva, certi tipi di riso e di cereali, che in futuro potrebbero essere sostituiti da altri cibi. O da loro alternative».