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Milano, il pasticcio della memoria alla Stazione Centrale: l’omaggio ai deportati della Shoah convive con quello alla guerra del Duce in Etiopia

24 Maggio 2023 - 06:35 Simone Disegni
La giustapposizione delle targhe al binario 21 dello scalo milanese, da cui partivano i convogli della morte della Shoah. Lo storico Filippi: «Così l'Italia (non) fa memoria»

Ai viaggiatori che sbarcano a Milano da fuori città, la Stazione Centrale dà il benvenuto con un strano minestrone: di Storia e di memoria. Per lo meno a quelli non distratti da smartphone e bagagli che alzano lo sguardo sul complesso di targhe che domina l’ultimo avamposto della stazione: il famigerato binario 21. Situato all’estremità destra del grande scalo ferroviario, il binario apre la via a quelle che oggi sono le ultime tre aree di partenza di treni, per lo più regionali: i binari 21, 22 e 23. Ma nella memoria collettiva, quel nome corrisponde soprattutto al luogo di partenza dei vagoni della morte che gli occupanti tedeschi organizzarono tra il 1943 e il 1945 per deportare verso i campi di sterminio migliaia di nemici del Reich. Stipati in quei carri bestiame, partirono dal “centro di smistamento” ferroviario di Milano a centinaia e centinaia gli ebrei e gli oppositori politici rastrellati dai nazifascisti in tutto il Nord Italia. Per destinazioni a loro ignote – che rispondevano a nomi come Auschwitz e Mauthausen – da cui nella maggior parte dei casi non avrebbero mai fatto ritorno. Tra le eccezioni più note, quella di Liliana Segre, partita sul convoglio stipato all’inverosimile del 30 gennaio 1944.

È stata proprio la senatrice a vita, il 27 gennaio di quest’anno, a dare ulteriore rilevanza al grande progetto di memoria che sorge nelle viscere della Stazione Centrale proprio per ricordare quel crimine: quel Memoriale della Shoah quotidianamente visitato da scolaresche di tutta Italia che Segre ha voluto fosse teatro dell’intervista-testimonianza con Fabio Fazio trasmessa in diretta tv su Rai1 nell’ultimo Giorno della Memoria. Ma che tracce restano del buio del Novecento sul “vero” binario 21, quello situato sopra terra da cui transitano ogni giorno migliaia di pendolari e viaggiatori? Molte, varie e contrastanti.

All’imbocco del binario, sorge in effetti una targa che commemora «il lungo viaggio di uomini, donne e bambini, ebrei e oppositori politici deportati verso Auschwitz e altri lager nazisti» dai sotterranei della stazione. «La loro memoria vive tra noi insieme al ricordo di tutte le vittime dei genocidi del XX secolo», richiama solennemente la stele, apposta sulla grande parete del binario 25 anni fa, il 27 gennaio 1998. Peccato che a pochi metri di distanza, prima di altri spazi murari dedicati ai ferrovieri caduti nella Prima Guerra Mondiale e in quella di Liberazione, giaccia un’altra targa, destinata questa volta a ricordare la «guerra italo-etiopica». Ovvero quella campagna d’invasione voluta da Benito Mussolini nella quale – pur di conquistare un “posto al sole” tra le potenze coloniali del mondo – le forze armate italiane non esitarono a sterminare migliaia di etiopi, civili compresi. Con una mobilitazione di uomini e forze straordinaria che comprese, come ormai ampiamente provato dagli storici, l’utilizzo di armi chimiche come l’irpite, usata senza troppi complimenti tra il 1935 e il ’36 per spegnere brutalmente i resistenti etiopici che difendevano più strenuamente le posizioni. Possibile un tale omaggio campeggi proprio a fianco del richiamo universale a custodire, nel nome di Primo Levi, «il ricordo di tutte le vittime dei genocidi del XX secolo»? 

Possibile. Tanto quanto lo è il lapidario (letteralmente) omaggio d’accompagnamento al “Capitano Giovanni De Alessandri, Medaglia d’Oro”. Chi era costui? Un valente combattente della guerra anti-etiopica, già distintosi nelle operazioni di contro-guerriglia in Libia durante la Prima Guerra Mondiale, e autore poi di altre “valorose” azioni di polizia coloniale in Etiopia vent’anni dopo. L’ultima delle quali, un violento combattimento con le formazioni partigiane locali, gli costò infine la vita. «Rimproverato alla vigilia di un aspro combattimento dal comandante perché nella lotta si esponeva troppo – si ricorda nella solenne motivazione della medaglia d’oro attribuita nel 1937 – estraendo dal portafoglio il ritratto della figlia “le giuro su questa”, disse, “ch’ella non avrà a lamentarsi di avermi ricevuto alla banda. Non ci sarà nessuno domani davanti a me e farò vedere come combattono gli italiani”. E mantenne la promessa. In un furioso attacco contro un nido di mitragliatrici scatta per primo, si slancia con pugnale e bombe a mano, è ferito più volte, cadono i suoi intorno a lui ma in un ultimo sforzo giunge all’arma nemica, pugnala il tiratore, col nome della figlia sulle labbra, sorridente si abbatte. Il corpo è crivellato di ferite, l’anima è in Cielo, il nome è di un eroe». 

Un perfetto eroe di un’epoca fortunatamente alle spalle, orgogliosamente fascista e razzista. Il cui ricordo resta a tutt’oggi evocato però proprio a fianco di quello dei cittadini italiani, ebrei e non, perseguitati, deportati e infine assassinati – non di rado proprio col gas – a prodotto compiuto proprio di quell’epoca e di quegli “ideali”. Poco più sotto, sulla stessa targa – verosimilmente aggiunto in un secondo momento – campeggia infine il ricordo «di tutti i ferrovieri che in servizio e in armi caddero per il supremo ideale della patria negli anni dal 1940 al 1945»: dalla guerra voluta dal Duce al fianco dei tedeschi a quella di Liberazione contro il regime stesso, dunque. Il minestrone di Storia è servito. Proprio a pochi passi da quel totem multimediale – voluto da Ministero della Cultura, Gruppo FS e Memoriale della Shoah stesso – inaugurato appena tre mesi fa alla presenza del ministro Sangiuliano, del sindaco Sala e dell’Ad di Ferrovie Luigi Ferraris per ricordare a tutti i frequentatori, con la viva voce di Liliana Segre, la tragedia che su quel binario si svolse e lo straordinario patrimonio del Memoriale distante appena pochi isolati.

«Più che di bisticcio di memoria parlerei di sovrascrittura di memoria», commenta con Open lo storico Francesco Filippi, che alla memoria abiurata o distorta dei crimini coloniali italiani ha dedicato diversi studi, confluiti da ultimo nel volume Noi però gli abbiamo fatto le strade (Bollati Bolinghieri, 2021). «La stratificazione di questo muro racconta molto dell’Italia – ragiona Filippi – Quella targa nasce con ogni probabilità nel momento in cui l’Italia si voleva imperiale e imperialista, per celebrare pubblicamente i trionfi della guerra di aggressione in Etiopia. Ma da un giorno all’altro, dopo il 1947, quella memoria per l’Italia non fu più comoda da indossare, e venne semplicemente amputata, o abbandonata a se stessa come in questo caso, sovrascrivendo la nuova memoria, quella della Resistenza. Senza nessuna preoccupazione di metabolizzare o contestualizzare la cesura. Come emerge plasticamente dall’accostamento alla Stazione Centrale di due azioni antitetiche: la condanna dello sterminio di altri uomini da parte di un regime totalitario da un lato, la sua esaltazione lì a fianco». «Quello che più stupisce dell’approccio italiano alla memoria pubblica – conclude Filippi – è la totale incapacità di vedere la bruttura, la stonatura, di un’associazione come questa. Neppure oggi, a 80 anni di distanza, tutto ciò dà fastidio». Fino a prova contraria, s’intende. 

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