Fratelli Bianchi, confermata la condanna per spaccio di cocaina: «Gestivano attività capillare»
Nel loro linguaggio in codice le chiamavano «magliette piccole, grandi e felpe», ma i giudici non hanno avuto dubbi: si trattava di cocaina e altre droghe. La Cassazione ha confermato la condanna per spaccio di sostanze stupefacenti a carico di Marco e Gabriele Bianchi, già condannati all’ergastolo in primo grado per l’omicidio del 20enne Willy Monteiro Duarte a Colleferro (Roma) nel settembre del 2020. Secondo i giudici, i due fratelli – esperti in arti marziali – gestivano «una capillare attività di spaccio di sostanze stupefacenti», in particolare cocaina. Per entrambi la condanna è a quattro anni e sei mesi di carcere per spaccio e tentata estorsione. A inchiodare i fratelli Bianchi sono state soprattutto le intercettazioni, dal momento che i loro clienti – interrogati dalla polizia – hanno reso «dichiarazioni palesemente reticenti e timorose», scrive la Cassazione. I giudici hanno confermato dunque quanto stabilito dalla corte di appello di Roma nel suo verdetto dell’aprile 2022, che ha condannato i Bianchi «con adeguata motivazione priva di vizi di logicità».
Pur confermando la responsabilità dei due imputati, sia per il reato di spaccio sia per quello di tentata estorsione, in terzo grado le condanne si sono ridotte a quattro anni e sei mesi, a fronte dei cinque anni e quattro mesi decisi in appello. È stata esclusa la «lieve entità dei fatti» sostenuta dagli avvocati difensori Vanina Zaru, Valerio Spigarelli e Ippolita Naso, in quanto – scrive la Cassazione – si è trattato di cessioni di cocaina «reiterate nel tempo e senza una sostanziale soluzione di continuità che dimostravano una non occasionale ma professionale attività di spaccio e, quindi, la detenzione di considerevoli quantitativi da immettere, seppure di volta in volta e in quantità modica, sul mercato». Il ricordo della difesa è stato dichiarato dunque inammissibile e ora i due fratelli Bianchi – già detenuti in due carceri diverse – dovranno versare 3mila euro a testa di ammenda per la mancanza di solidi motivi per appellarsi alla Suprema Corte.
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