«Così lo Stato italiano esclude noi persone trans dal mondo». La storia di Elia Bonci – L’intervista
Banali azioni da compiere nella vita di tutti i giorni possono diventare un inferno per le persone transgender. «Nei giorni scorsi aspettavo un pacco a casa, ma quando è arrivato io non c’ero ed è stato portato in posta. Quel pacco io non posso più prenderlo perché sopra c’è scritto il nome con cui mi riconosco ma che non corrisponde ai miei documenti». A raccontarlo a Open è Elia Bonci, attivista per la comunità transgender, divulgatore sui social e scrittore. «Mi trovo di fronte a un servizio perso oppure all’unica possibilità di andare lì e provare a spiegare tutta la mia situazione sapendo già quello che accadrà, nonostante io abbia un foglio firmato da un esperto in cui viene dichiarato che se qualcuno mi chiama con il deadname (nome di nascita in cui non si riconosce, ndr) può essere un grave problema per la mia salute mentale».
«Ho lasciato l’università per il disagio subito»
Elia ha 27 anni, vive a Latina e ha iniziato il percorso per la rettifica dei propri dati anagrafici quattro anni fa e ancora oggi sta affrontando l’iter lungo e a ostacoli previsto per la convalida della sua richiesta al tribunale. Anni difficili che lo hanno portato a prendere scelte dure e radicali per tutelare la propria serenità. Diversi anni fa ha iniziato l’università – La Sapienza di Roma, facoltà di Lettere e Filosofia – ma ha deciso di interromperla per i troppi disagi. «Quando ho iniziato a frequentarla io non esisteva ancora la carriera alias (il profilo burocratico alternativo che permette agli studenti transgender e non binary di alcune scuole di adottare il nome di elezione e non quello anagrafico, ndr) e anche quando è stata introdotta non funzionava a dovere», racconta il 27enne. «Ho anche subito un grave episodio discriminante da un professore. E a lungo andare ho deciso di mollare l’università».
«Una violenza sistemica e strutturale»
Il 27enne ci tiene a sottolineare che le discriminazioni che subisce ogni giorno non sono un caso isolato. «Si tratta di una violenza sistemica, attuata dallo stato che è trans-escludente perché fa in modo che io venga escluso dal contesto lavorativo, economico, scolastico e di conseguenza sociale», spiega. Ricorda poi come soprattutto il periodo della pandemia da Covid sia stato difficile, poiché doveva presentare di continuo il Green Pass e quindi i propri dati anagrafici. Era obbligato a dichiarare a persone estranee il sesso assegnato alla nascita, il deadname, e a subire in modo ancora più frequente misgendering quando si riferivano a lui usando nome e pronomi del documento e non quelli dell’identità con cui si riconosce.
«La causa? Una legge che non ci appartiene più»
Il giovane attivista identifica il problema in una radice ben precisa: la mancanza di una legge che sappia rispondere ai bisogni di oggi. «La 164 del 1982 è vecchia. Non ci appartiene più e non è compatibile con le richieste della mia generazione», sottolinea. «Solo per poter iniziare la rettifica dei documenti mi sono dovuto procurare una doppia sentenza, quella psicologica – il cui percorso è durato un anno – e quella endocrinologica», racconta Elia. «Questo affinché un esperto mi potesse diagnosticare la disforia di genere che, vorrei sottolineare, solo qualche anno fa è stata tolta dall’albo delle malattie mentali».
In tribunale a fare i conti con la burocrazia (e non solo)
Con le due relazioni in mano si è poi rivolto a un avvocato. «Qui inizia il “bello” – dice Elia – perché parte un secondo percorso burocratico macchinoso. Il legale ti assegna al tribunale di residenza, ma prima di poterlo fare ti servirà una lista di documenti infinita che può cambiare da tribunale a tribunale». La mancanza di uniformità nella prassi attuata dai tribunali ha creato una migrazione di residenze negli ultimi anni. Dato che alcuni sono più friendly e vi è più possibilità che il giudice conosca questo tipo di percorso e lo convalidi nel minor tempo possibile, molte persone decidono di cambiare casa – con tutto quello che comporta – e di avviare la pratica in un tribunale specifico e non in quello della residenza di partenza.
La (non) reperibilità dei farmaci
Ma i problemi sono molteplici. Elia, oltre a evidenziare quanto sia controverso l’obbligo di assunzione della terapia ormonale per poter accedere alla rettifica dei documenti, ci tiene a mettere in luce che la stessa terapia è spesso difficile da reperire. Non tutte le farmacie ricevono le provviste con costanza e in gran parte dei casi le persone si trovano costrette a non poter assumerla con regolarità o a dover cambiare terapia. «Ma non solo la reperibilità – puntualizza -, c’è spesso da fare i conti anche con l’incompetenza in materia di transgenerità da parte dei farmacisti al banco, così come dei comuni e delle anagrafi che, anche se si sarebbero dovuti occupare loro di darmi tutta la documentazione, mi hanno solo complicato le cose».
Educazione al centro
L’iter per la rettifica anagrafica è lungo, costoso e contorto. La persona che decide di affrontarlo sa che dovrà passare da uno specialista a un altro per anni. Ma in questo percorso, sostiene lo scrittore, «nei centri che si occupano di noi manca l’unica figura davvero essenziale: un’educatrice competente in materia che sia di supporto nelle attività pratiche e non solo. Così che le persone possano decidere di non andare da sole al primo incontro con l’endocrinologa, a reperire i farmaci o a fare le analisi. Oltre a poter ricevere un’educazione sesso-affettiva di cui nessuno si occupa». Una figura che andrebbe implementata maggiormente anche altrove. «A partire dalle scuole, dove è totalmente assente».