«L’emoji con il pollice in su vale come firma»: la decisione di un giudice in Canada
Un emoji non è più solo un emoji. In Canada quella del pollice in su è stata considerata una firma. È quanto successo a Chris Achter, un agricoltore canadese che ha risposto con questa emoji a un contratto ricevuto in chat da una cooperativa. Una risposta che è stata considerata vincolante dal punto di vista legale. O almeno questa è stata la decisione dei giudici che è costata all’uomo oltre 61mila dollari per non aver rispettato il contratto che aveva, appunto, firmato. «La Corte riconosce che non è un modo tradizionale di firmare, ma in queste circostanze resta valido», ha dichiarato il il giudice della provincia canadese di Saskatchewan, T.J. Keen.
I fatti
I fatti della causa risalgono al 2021 quando l’agricoltore ha ricevuto il contratto per 87 tonnellate di cereali da consegnare a novembre e sul messaggio c’era scritto: «Si prega di confermare». A questo messaggio l’agricoltore ha risposto con l’emoji del pollice in su. Ma il prodotto non è mai arrivato all’azienda che ha quindi fatto causa ad Achter per violazione del contratto, puntando proprio sul fatto che quell’emoji avesse siglato l’accordo. La decisione del giudice si basa anche sul fatto che Achter in più occasioni ha risposto con dei semplici «yup» e ha poi rispettato la consegna. Pertanto, quel tipo di messaggio è un simbolo – secondo la Corte – di una conferma del contratto. A questo proposito, il giudice ha sottolineato che «la Corte non può, né dovrebbe, tentare di arginare la tecnologia. È la nuova realtà».
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