Matteo Berrettini e l’infortunio: «Ho conosciuto il buio e ho pensato di fuggire da tutto, poi ho capito cosa mi rende felice»
«Nel tennis, nella solitudine di quello sport che pure è sotto gli occhi di tutti, mi sento come un entomologo di me stesso. Ogni gesto è pensato, vissuto e sofferto. Perché da ogni gesto dipende l’esito di ciò che fai». A meno di un mese dall’eliminazione a Wimbledon contro Carlos Alcaraz, Matteo Berrettini si racconta. E lo fa in una lunga intervista concessa a Walter Veltroni sulle pagine del Corriere della Sera. «Il tennis è uno specchio impietoso, ti guarda dentro. E ho capito una cosa fondamentale: per eccellere, in questo sport, devi in primo luogo riconoscerti». Nel corso dell’intervista, il tennista romano classe 1996 ricorda le sue prime volte sul campo: «I miei genitori, che erano e sono soci di un circolo tennis, hanno depositato una racchetta tra le mie mani, con annesse palline di gomma, quando avevo tre anni». Eppure, racconta Berrettini, «non mi piaceva, volevo fare judo, arti marziali. Poi fu mio fratello a convincermi che il tennis era più divertimento che pura fatica. A otto anni ho ripreso la racchetta e non l’ho mai più posata. Mio nonno, a ottant’anni, gioca ancora, è proprio una malattia di famiglia».
L’infortunio e il «buio psicologico»
Nel corso dell’intervista, Berrettini racconta anche come ha dovuto fare i conti con gli infortuni dell’ultima stagione. «Nell’ultimo anno ho vissuto troppi strappi mentali e fisici – spiega il tennista -. Ci sono stati dei momenti in cui la mia testa e il mio corpo non erano allineati, chiedevo troppo all’uno o all’altro. Clinicamente è stato uno strappo dell’obliquo interno. Credo di aver chiesto troppo al mio corpo. Se la testa si illude di stare bene e il corpo sta male, si paga il prezzo che ho pagato». Poi, complice il fatto di non poter competere, il dolore fisico si è trasformato in uno stato di malessere mentale. «Non poter partecipare ad appuntamenti importanti mi ha fatto conoscere il buio. E il buio sembra non avere fine, sembra ti inghiotta perché invece di stare fermo e rifiatare, ti scavi da solo un abisso. Sono stati momenti brutti, che non mi sono piaciuti».
La tentazione di fermarsi
Alla fine, l’infortunio è passato e Berrettini è tornato a essere quello di un tempo. Come ci è riuscito? «Recuperando la purezza, l’allegria, l’incanto di una scelta che non ho compiuto, da ragazzo. Pensando a Wimbledon, ma con la coscienza che era quello che volevo fare per sentirmi bene», spiega il tennista. Nonostante questo, ci sono stati momenti in cui anche lui ha pensato di arrendersi e dire «basta». «Nel 2020 ho avuto un’annata complicata e ricordo di aver fatto il pensiero, che mi aiutava a dormire, di prendere il passaporto, non dire nulla ad anima viva e fuggire dove nessuno avrebbe potuto trovarmi – rivela Berrettini -. Mi è capitato di pensarci, nei giorni bui. Pensavo: “Ma perché devo subire tutta questa pressione, il senso di colpa per il mio corpo ferito”». Poi il tempo ha alleviato il dolore e Matteo ha ritrovato la forza di andare avanti: «Il tempo, il confronto con gli altri mi hanno fatto capire che io sono felice solo se scendo in campo e respiro quell’atmosfera. E sono infelice se non lo faccio. È una magnifica condanna, che mi sono scelto. E che ancora oggi mi regala gioia immensa».
Foto di copertina: EPA/Neil Hall | Matteo Berrettini durante il match contro Carlos Alcaraz a Wimbledon, 10 luglio 2023