I poveri mangiano meglio dei ricchi? La smentita del rapporto Censis-Coldiretti sul boom dei discount
I dati fattuali si scontrano con la retorica del ministro dell’Agricoltura, Francesco Lollobrigida, secondo cui «i poveri mangiano meglio dei ricchi». Dalle sue dichiarazioni al meeting a Rimini di Cl è nata la polemica, ma cosa ci dicono i numeri? Dal rapporto Censis-Coldiretti dello scorso novembre, oggi ricordato tra le pagine di la Repubblica, emerge un quadro diverso rispetto a quello delineato da Lollobrigida. Perché, se il 37% degli italiani ha ridotto la qualità del cibo acquistato a seguito dell’inflazione, la percentuale sale a 46% per i redditi più bassi e scende al 22% per quelli più alti. L’aumento dei prezzi, infatti, ha spinto molte famiglie a optare per i discount: vi fanno la spesa il 72% degli italiani. «La crescita dei discount è il dato più eclatante da quando abbiamo a che fare con l’inflazione», ha dichiarato a la Repubblica Massimiliano Valerii, direttore generale del Censis. «Credo che il ministro si riferisca alla propensione che i ceti popolari hanno per i cibi genuini, ma un aumento dei prezzi che sui prodotti alimentari si aggira attorno al 10-12% notoriamente pesa di più su chi ha disponibilità economiche scarse. A soffrirne oggi è anche una parte del ceto medio».
Il mercato del contadino conviene ancora?
Anche la romantica visione per cui i «poveri» si recherebbero ogni giorno dal fidato agricoltore, accaparrandosi primizie a prezzi stracciati, non sembra avere fondamento: come spiegato da Laura Di Renzo, direttrice della Scuola di specializzazione in Scienze dell’alimentazione all’università di Roma Tor Vergata, ormai i produttori locali non offrono più prezzi tanto convenienti, perché si sono adeguati al rialzo del costo della vita. «Se guardiamo anche all’estero, spesso la povertà economica è associata a quella nutrizionale – spiega Di Renzo -. Sfamarsi non equivale a nutrirsi. Anche quando ci si riesce a saziare, nei paesi a basso reddito si fatica ad assumere tutti i nutrienti necessari alla salute». E ancora: «In Italia i pacchi alimentari per i poveri hanno a volte lo stesso problema. Ci sono chili di pasta e farina: importanti per riempire la pancia, non per ottenere una dieta sana». Bisogna riconoscere che i tempi sono cambiati, e non solo per la congiuntura economica particolarmente negativa che stiamo attraversando: «Alle origini della dieta mediterranea, negli anni ’50, il cibo aveva un valore, quasi una sacralità. Non se ne abusava né si sprecava», ha spiegato Stefania Ruggeri, ricercatrice del Crea (Centro di ricerca alimenti e nutrizione). «Se oggi riempiamo il carrello del supermercato di cibo spazzatura è perché abbiamo smarrito quel valore. È il consumismo a farci perdere la direzione del buon mangiare, non tanto la povertà».
Non rinunciare alla buona alimentazione
E questo è un problema: «Tra i poveri come tra i ricchi, mangia bene chi resiste alle lusinghe del consumismo e capisce che il cibo è la chiave della salute», aggiunge Ruggeri. Anche perché reddito basso non equivale necessariamente a cattiva alimentazione: «Non è detto che il cibo del discount sia inferiore. L’offerta alimentare italiana è sempre riuscita ad adeguarsi ai vari portafogli restando di buon livello», puntualizza Valerii. «La cucina italiana è ricca di piatti squisiti preparati con gli avanzi. Dalla ribollita alle zuppe, dalla frittata di pasta ai sughi con le verdure, molte specialità salutari costano poco». Insomma creatività ai fornelli e cura della salute devono essere bussole importanti nella scelta del menu. Ma non sempre ci riescono: «Nel nostro istituto usiamo un indice che misura quanto una dieta si avvicini alla dieta mediterranea», ha aggiunto Di Renzo. «I valori ottimali sono 10-15, già 5 è un buon risultato, ma noi in Italia arriviamo a 2. Ci eravamo ripresi un po’ con la pandemia. La crisi attuale ci sta facendo di nuovo scivolare verso il basso».
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