Festival di Open, dentro la rete della violenza online: «Non lasciamo al porno l’educazione sessuale dei ragazzi»
Cos’è il revenge porn? Ma soprattutto, perché non va chiamato così? Chi sono le vittime dei reati legati agli abusi sessuali online? Come ci si può difendere e cosa possono fare i genitori per aiutare i figli a non essere manipolati da malintenzionati? Quali meccanismo entrano in gioco nella mente di chi commette abusi sessuali? Sono queste le domande di cui si è discusso al Festival di Open, al panel Immagini intime e altri abusi: dentro la rete della violenza, moderato dal vicedirettore di Open David Puente, con Barbara Strappato, vice questore aggiunto della polizia postale, Valeria Fonte, divulgatrice; Cristina Bonucchi, psicologa della Polizia di Stato; e Paolo Giulini, criminologo clinico.
Non chiamatelo revenge porn
«Le parole costruiscono realtà che abitiamo», spiega l’attivista Valeria Fonte. «E usare la locuzione revenge porn comporta due errori». «Il primo – continua – è chiamarlo revenge, ovvero vendetta, perché così diamo per scontato che chi subisce l’abuso abbia fatto qualcosa di male. Il secondo è chiamarlo porno. Il porno è materiale esplicito destinato alla visione di terzi. Ma i video condivisi nell’ambito del fenomeno non sono creati per essere diffusi. Per questo dobbiamo chiamarlo “condivisione non consensuale di contenuti”. Io sono una survivor del fenomeno, perché qualcuno ha condiviso contenuti espliciti che mi ritraevano, e mi sentivo sporca ogni volta che qualcuno diceva revenge porn».
La sextortion
Ma non c’è solo la condivisione di materiale esplicito tra i rischi in cui incorre chi frequenta la rete. In particolare, uno degli altri fenomeni particolarmente diffusi è la sextortion, la pratica con cui si convince qualcuno ad inviare materiale esplicito, per poi ricattarlo, minacciando di diffondere il video e foto a terzi, solitamente in cambio di denaro. «Vittime di estorsioni sessuali sono principalmente maschili, commenta. L’età delle vittime si è abbassata. Spesso sono adolescenti. Il primo pericolo che affrontiamo, continua Strappato, «è quello che deriva dalla semplificazione del linguaggio che i tempi del web richiedono». «A volte abbiamo poco tempo, ma dobbiamo trovarne per capire bene quello che ci accade intorno».
Il controllo dei genitori
«I genitori non devono rinunciare a controllare i dispositivi elettronici, non devono abdicare, devono controllare i videogiochi perché chi conosce il mondo e li vuole adescare sa esattamente dove i giovani si spostano», precisa in seguito Cristina Bonucchi. Fondamentale anche denunciare chi commette abusi che coinvolgono la diffusione di immagini intime in maniera consensuale. Quello che va tenuto presente, precisa Bonucchi, è che in questa dinamica entra in gioco la vergogna. «Soprattutto per i maschi c’è proprio la difficoltà di parlare con i genitori». «Gli adolescenti stanno scoprendo il loro corpo che diventa adulto. Una fase vulnerabile della vita, di esplorazione in cui può dare un’idea di sicurezza l’essere protetti da uno schermo, che rende l’esplorazione online apparentemente più sicura, dato che non ti espone al giudizio degli altri», precisa.
«Dire alle donne cosa devono fare»
Ma non è un ruolo solo dei genitori. aggiunge Valeria Fonte. Istituzioni e scuole devono fare la loro parte. «Il problema è che lasciamo al porno la possibilità di educare i ragazzi e le ragazze». «Il problema – insiste – è che se non c’è una educazione a scuola e si pretende che siano i genitori a colmarla è come pensare che un papà insegni la matematica al figlio anche se non la sa. Può funzionare solo le lui è un esperto del campo. E infatti gli stupri, reali e virtuali, vengono commessi da persone considerate normali: istruite, con un lavoro normale e una famiglia normale». «L’educazione è fondamentale per i ragazzi, ma anche per le ragazze. Perché ci sono troppi Giambruno che ricordano loro cosa non dovrebbero fare, ma nessuno ricorda cosa possono fare: divertirsi, ubriacarsi, uscire da sole, senza dover necessariamente temere un lupo», conclude Fonte.
Il profilo di chi commetti gli abusi
Paolo Giulini, criminologo clinico, infine, ha parlato della condizione di chi commette gli abusi, e soprattutto del processo educativo che – spiega – deve necessariamente esserci. La pena, dichiara Giulini, deve restituirci dei soggetti che non sono più in grado o che sono. Se non altro capaci di gestire, quella loro modalità pericolosa e dannosa di stare nelle relazioni. Il criminologo evidenzia un atteggiamento di chiusura totale che si verifica in coloro che subiscono una pena non rieducativa. I detenuti si chiudono perché «rischiano di subire attacchi dalla restante popolazione detentiva» e rischiano di «rimanere in ibernazione totale se non c’è quel qualcuno che tocca quel ghiaccio e lo scongela», commenta Giulini, facendo notare che spesso chi è autore di abusi sostiene di averne subiti anche quando non è vero. «Per un principio di vendetta che continua in un circolo vizioso».
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