L’odissea di Daniela Fubini: «69 ore nel bunker, poi la fuga in Italia. I civili a Gaza? Hamas ha stravolto tutto, ora viene prima la mia famiglia» – L’intervista
Il corpo ora è al sicuro, a Milano. Ma la testa è ancora lì, a due passi dall’orrore da cui è appena sfuggita. Daniela Fubini, torinese di nascita, cittadina del mondo per vocazione, dal 2008 ha scelto di vivere in Israele e dal 2018 si è stabilita con suo marito a Kokhav Michael: 60 chilometri a sud di Tel Aviv; meno di 20 dal confine con la Striscia di Gaza. Insieme al coronamento del sogno di una vita piena nello Stato ebraico, in tre col bimbo che sarebbe arrivato di lì a poco, aveva messo in conto tutto il resto: l’incertezza della vita in un Paese da sempre in guerra, il dissenso verso una leadership spostata sempre più a destra, i razzi di Hamas. Ma non l’orrore che il partito-milizia al governo della Striscia dal 2006 ha scatenato sabato 7 ottobre. Quell’incursione ha travolto tutto: le barriere di confine con Israele, il mito dell’inviolabilità dello Stato ebraico, oltre 1.300 persone, le vite, i progetti e perfino la visione del mondo di altre migliaia, milioni di persone. Daniela è una di queste. Sabato mattina all’alba, quando sono suonate le prime sirene d’allarme, era a letto, come tutti, accanto ai suoi cari. Quel che ha vissuto da quel momento lo porta stampato negli occhi: il terrore, l’istinto di sopravvivenza, il dovere di non fare trasparire nulla di fronte al piccolo di due anni e mezzo. «La situazione è drammatica, esco da tre giorni dentro al bunker – il mamad, la stanza sicura della nostra casa – con i muri che vibravano tra i razzi di Hamas e la risposta della nostra contraerea con l’Iron Dome: sembrava di essere dentro un ribollio di terremoto continuo», racconta a Open neppure 24 ore essere atterrata a Milano, dove ora è al sicuro con suo figlio. Solo l’inizio del film dell’orrore che Daniela riavvolge, ancora incredula e sotto shock, mentre il telefonino si accende di continuo degli allarmi di sirene che ancora risuonano attorno a casa sua e altrove in Israele.
Il frastuono, le sirene, il bunker
«La sirena che abbiamo sentito all’alba di sabato arriva normalmente dopo qualche giorno di piccole schermaglie. Questa volta è stata immediata, non abbiamo neanche avuto il tempo di respirare: ci siamo svegliati alle 6.30 con un rumore fortissimo, nel giro di tre minuti è suonata la sirena e siamo corsi tutti e tre nella stanza sicura, raccattando solo il materassino per il bimbo, i suoi giochi preferiti e qualcosa da mangiare. Non ne siamo più usciti praticamente per tre giorni, se non per andare a perdere qualcosa dal frigorifero, fare qualche cambio o i bisogni». Il vissuto di Daniela è quello delle migliaia di famiglie del sud di Israele che quella mattina nel giro di pochi minuti hanno visto, sentito o percepito le centinaia di terroristi di Hamas sbucati all’improvviso da oltre confine per sventare case e villaggi e uccidere, rapire, violentare. E la possibilità di rifugiarsi nel mamad – la stanza sicura dentro casa, non il bunker di zona – è stata per molti lo spartiacque tra la vita e la morte. «Quella porta blindata era la cosa che ci avrebbe diviso dai terroristi se fossero riusciti ad arrivare fino a noi», scandisce Daniela pesando ad una ad una le parole e il filo sottilissimo che descrivono. «In molte case i terroristi sono entrati dentro, e le famiglie si sono riuscite a salvare perché erano nella stanza sicura con la porta blindata sbarrata». Ma neppure quella protezione è bastata per tutti: «Purtroppo ci sono anche dei casi di famiglie che sono state ammazzate dai terroristi che sono riusciti ad entrare anche nelle stanze blindate. Questa è una tragedia immane, senza precedenti».
Le stragi di civili e i video dell’orrore
A Kokhav Michael, per una manciata di chilometri o di ore, i tagliagole di Hamas non sono arrivati. Ma tutti nella zona conoscono qualcuno che è stato ammazzato, rapito o chissà quale delle due – ancora disperso dopo cinque giorni. «Il compagno di una delle mamme dell’asilo nido di mio figlio è stato ucciso nel primo combattimento nel primo giorno, a Kfar Aza, e l’hanno potuto recuperare solo martedì: il disprezzo per ogni umanità». Lo stesso che sta emergendo dai segni degli attacchi a decine di villaggi della zona – dal kibbutz Be’eri a quello di Nir Oz, da Ein haShloshà a Cholit. «La lista dei massacri è infinita – chiosa Daniela interrompendo per pietà la conta -. Le famiglie erano riunite per la festa di Simchat Torà che cadeva in simultanea con lo Shabbat: per questo in tutti questi posti ci sono famiglie intere azzerate». Ma se sapere è un dovere morale, vedere è una pena pericolosissima: Daniela lo sa avendo visto nelle prime ore del massacro un filmato con un soldato riverso a terra, e ne ha tratto – come tanti altri – la sua lezione. «Circolano video di Hamas di quel che è successo. Io come molti mi sono rifiutata di vederli. C’è in questi giorni una specie di movimento di rifiuto, circolano in chat e sulle piattaforme inviti espliciti a non guardare quei video. Salvo le famiglie che hanno dei dispersi, tutti gli altri non li devono vedere, perché sono cose che una volta che hai visto non torni indietro».
La fine dell’isolamento e la fuga in Italia
69 sono le ore che Daniela ha trascorso quindi chiusa dietro la pesante porta del suo mamad, che coincide – ad agevolare in qualche modo la narrazione che ha potuto coprire il terrore agli occhi del bambino – con la «stanza dei nonni» quando vengono in visita. Per lei e suo marito, israeliano, non c’era filtro a nascondere ora per ora ciò che accadeva là fuori. Per tre giorni. Sino a quando, nella notte tra lunedì e martedì, dopo giorni di conciliaboli interni e in chat con gli amici e i vicini della zona, il piccolo nucleo famigliare italo-israeliano ha deciso che era il momento di tornare allo scoperto, e di portare mamma e piccolo al sicuro, costasse quel che costasse. «Avendo la possibilità di comprare un biglietto per portare me e mio figlio fuori da Israele, abbiamo deciso di prenderci il rischio e di salire direttamente su una macchina verso l’aeroporto». Volo per Milano alle 7 di mattina, viaggio dal moshav a Tel Aviv nel cuore della notte. «Alle 3.30 del mattino eravamo in autostrada, con il rischio reale e concreto che, se fosse partita lungo la strada una sirena, avremmo dovuto, nell’ordine: staccare la cintura di sicurezza, scendere dalla macchina, staccare il bambino dalla sua cintura e dal suo seggiolino, appoggiarci tutti e tre alla macchina da uno dei due lati, scegliendone uno a caso, buttarci per terra in mezzo all’autostrada e aspettare che l’Iron Dome facesse il suo lavoro. Tutto questo in 15 secondi. Questo è un rischio che una famiglia si prende soltanto se non ha altre speranze, se non c’è più niente da fare». Nulla di tutto ciò è accaduto, Daniela è ora al sicuro a Milano col bimbo, mentre il marito è rimasto in Israele. Che si prepara a una nuova, lunga guerra. Forse la più difficile e sanguinosa di sempre.
Il nuovo ciclo di morte e le responsabilità di Hamas
Solo pochi giorni prima che la storia di quel fazzoletto di terra cambiasse per sempre, Daniela e la sua famiglia tenevano un momento di commemorazione in ricordo dello zio, Marco Voghera, partito anche lui alla volta di Israele 50 anni fa per tradurre in realtà il suo ideale sionista, e morto tragicamente in divisa nella guerra del Kippur, che anche allora, in circostanze diverse, colse di sorpresa lo Stato ebraico. Ora l’inizio, certo, di un nuovo ciclo di violenza, che oltre a quelli raccontati da Daniela sta già portando altri lutti, altra morte, altra distruzione. E tanta altra ne porterà, a cominciare dall’altra parte del confine, là da dove i terroristi sono venuti. Ridotti al buio e sotto le bombe incessanti, gli abitanti di Gaza attendono, a giorni se non a ore, la preannunciata incursione di terra di Israele volta a debellare definitivamente Hamas, costi quel che costi. L’orrore scatenato sabato scorso dagli islamisti ha stravolto tutto, compreso lo sguardo su ciò che accade dentro il Paese e su ciò che accade “oltre” di chi sino a poche settimane fa non aveva timore a scendere in piazza contro la deriva del proprio governo, come Daniela. «In tutte le altre guerre che ho vissuto in Israele, e ne ho vissute diverse, avrei risposto forse diversamente – riflette quando le chiediamo un ultimo pensiero sulle sofferenze in atto e a venire anche per i civili di Gaza – Oggi non ho alternative che fidarmi dell’esercito, e della nostra leadership che purtroppo in questo momento non sta dimostrando il meglio di sé. Non ho alternative, devo fidarmi e devo fidarmi del fatto che faranno ogni cosa per salvare me, mio figlio, la mia casa, mio marito, mia suocera, tutti i miei amici e le persone a cui voglio bene dal lato israeliano. Tutto il resto in questo momento purtroppo va in secondo piano. Va in secondo piano non per una scelta mia, ma perché qualcuno in una leadership di un ente straniero, dall’altra parte di un confine, ha deciso che questo è quello che per me è più importante. Sono loro che hanno deciso. È una cosa drammatica, ma è così, e purtroppo gli stessi cittadini a Gaza, e forse tra poco in Libano, sono nello scacco matto delle scelte irrazionali e deliranti dei loro governanti. Ma la scelta è stata fatta a tavolino da Hamas e da chi ha deciso di partire con questi massacri sul territorio israeliano contro civili inermi che stavano dormendo nei loro letti».