Il mea culpa del capo dello Shin Bet per la strage di Hamas: «Avevamo captato dei segnali, ma li abbiamo sottovalutati. La responsabilità è mia»
A nove giorni dalla strage più grave subita da Israele sul suo territorio, arriva un pesante mea culpa per gli errori delle autorità che hanno consentito che i terroristi di Hamas massacrassero oltre 1.400 persone nell’arco di poche ore nel sud del Paese. È quello del capo dello Shin Bet, il servizio di sicurezza interna di Israele. «Nonostante una serie di azioni intraprese, quel giorno purtroppo non siamo stati in grado di dare un’allerta sufficiente a sventare l’attacco», ha scritto Ronen Bar in una lettera ai membri dell’agenzia, secondo quanto riportano i media israeliani. Per concludere inequivocabilmente: «come capo dell’organizzazione, la responsabilità di ciò è mia». Il mea culpa del capo dello Shin Bet segue quelli espressi pubblicamente nei giorni scorsi dal capo di stato maggiore dell’Esercito Herzi Halevi, da diversi comandanti dell’Idf, dal capo del consiglio nazionale di sicurezza e dal ministro dell’Economia ed esponente dell’ultradestra Betzalel Smotrich. Nessuna parola simile è stata sin qui pronunciata né dal primo ministro Benjamin Netanyahu né dal suo ministro della Difesa Yoav Gallant, primi responsabili politici per la guida dell’Esercito – come nota non senza polemica Haaretz.
Gli allarmi ignorati e le perdite nell’intelligence
Secondo quanto emerge ora, l’intelligence israeliana avrebbe notato nelle ore precedenti all’invasione di Hamas «movimenti inusuali» all’interno della Striscia di Gaza, ma avrebbe anche in quell’occasione di fatto sottovalutato i segnali. Alti funzionari israeliani avrebbero infatti tenuto nel cuore della notte una telefonata per valutare la situazione, senza però decidere di intraprendere alcuna azione significativa di fronte a quei movimenti. La valutazione di Bar era stata però più pessimistica, trapela dallo Shin Bet: ragione per la quale, fatto rapidamente rientro al quartier generale dell’agenzia, avrebbe ordinato il dispiegamento di una piccola squadra dei suoi servizi verso il confine con Gaza, in previsione di un possibile «attacco su piccola scala». Nulla di lontanamente sufficiente a contenere la portata dell’attacco che Hamas stava per lanciare contro Israele. E anche quella «piccola squadra» ne ha fatto con ogni probabilità le spese. «Abbiamo perso dieci dei nostri migliori uomini, e avuto molti altri feriti», ha scritto ancora Bar nella missiva.
Il tempo della guerra e quello delle indagini
Ma il tempo dei processi non è questo, ha sottolineato il dirigente dell’intelligence. «Ci sarà un tempo per le indagini. Ora, siamo in guerra». Non una battaglia come tante altre combattute in passato da Israele contro Hamas, ma una vera guerra. Qual è la differenza? «Le battaglie finiscono con una sensazione di vittoria e tranquillità; le guerre finiscono con un cambiamento decisivo della situazione. Non ci sono limiti, né vincoli di tempo: sino al raggiungimento dell’obiettivo». e ora, superato lo shock delle prime ore dopo l’attacco, gli apparati di sicurezza israeliani stanno lavorando al massimo delle loro capacità in questa direzione, sostiene ancora Bar: «Dal primo giorno del conflitto abbiamo stabilito un sistema speciale, in cooperazione con l’Idf, per localizzare, identificare e concentrare gli sforzi per riportare a casa gli ostaggi e le persone disperse».