«Dalla tassa sugli extraprofitti delle banche neanche un euro allo Stato»: la previsione di Unimpresa
La tassa sugli extraprofitti delle banche rischia di avere un effetto boomerang sulle casse dello Stato. A dirlo è Unimpresa sula scia delle decisioni già prese dai due principali istituti di credito italiani, Intesa SanPaolo e Unicredit. Nel suo percorso di conversione in legge il decreto Asset del governo Meloni è stato modificato, dando alle banche la possibilità di scegliere se versare allo Stato la tassa – una parte della differenza del margine di interesse maturato nel 2023 rispetto al 2021, fino a un importo massimo dello 0,26 calcolato sugli attivi, escludendo però i titoli di Stato – o destinare un importo pari a due volte e mezzo il suo valore per rafforzare il proprio patrimonio. Un’opzione che, come si diceva, Unicredit e Intesa SanPaolo hanno già comunicato di voler perseguire. E se, come prevede Unimpresa, tutti o quasi gli istituti italiani dovessero seguirli, per lo Stato si tradurrebbe in una soluzione a «gettito zero». Un bel problema, considerato che le previsioni di entrate erano pari a 3 miliardi e 248 milioni di euro. «Appare scontato un risultato insoddisfacente per il governo, dunque beffato», scrivono i rappresentanti delle imprese dopo una valutazione del loro Centro studi, «la decisione del primo e del secondo gruppo bancario del Paese, Intesa Sanpaolo e Unicredit, che ieri e oggi hanno annunciato di non voler pagare l’imposta, preferendo accantonare a riserva, come previsto dalla legge, un importo pari a 2,5 volte il teorico prelievo fiscale, spiana la strada a un comportamento che, salvo poche eccezioni, dovrebbe essere seguito dalla quasi totalità del settore bancario italiano». Una scelta tanto più necessaria per le banche quotate sui listini di Borsa, poiché il versamento dell’onere fiscale comporterebbe, per gli amministratori societari, rischi legali per potenziali ricorsi da parte degli azionisti.
L’accantonamento non favorisce i prestiti
Per questo, secondo Unimpresa, «siamo di fronte a una norma sostanzialmente neutrale sul piano fiscale, che non avrà alcun impatto tangibile sui bilanci bancari e sulle finanze pubbliche». La possibilità per le banche di accantonare a riserva invece d versare allo Stato non può essere spiegata con le motivazioni addotte dell’esecutivo. «Secondo quanto spiegato dal governo, le modifiche introdotte al decreto in sede di conversione hanno l’obiettivo di accrescere l’offerta di prestiti alle imprese e alle famiglie», segnala il consigliere nazionale di Unimpresa, Manlio La Duca, «tuttavia, l’attuale restrizione del credito non è legata tanto agli attuali livelli dei coefficienti patrimoniali, quanto all’aumento del costo del denaro che ha cagionato un incremento dei tassi d’interesse e, più in generale, un brusco peggioramento delle condizioni di accesso ai finanziamenti bancari». Il governo aveva stimato un gettito di oltre 3 miliardi, calcolando che l’attivo ponderato al rischio – Rwa – fosse intorno al 38% dell’attivo complessivo, ovvero un importo pari a 1.249 miliardi, di cui lo 0,26% – l’importo massimo fissato dal decreto – equivale a 3 miliardi e 248 milioni. Una cifra che, stando alle imprese, rischia di non essere neanche lontanamente avvicinata se, come previsto, altri istituti di credito dovessero seguire le decisioni già prese dai due colossi bancari.