Patto di Stabilità, lite senza fine tra i governi. L’Ue teme il flop e medita un «dispositivo di transizione» per scongiurare il ritorno alle vecchie regole
È passato un anno esatto da quando la Commissione Ue guidata sul tema da Paolo Gentiloni ha presentato la sua proposta di riforma del Patto di Stabilità: fuor di gergo tecnico, il nuovo insieme di regole comuni per la gestione delle economie dei Paesi Ue. Meno rigidità rispetto ai vecchi “parametri di Maastricht”, dimostrasi irrealistici alla prova dei fatti e delle crisi, più flessibilità nel monitoraggio da parte della Commissione delle politiche economiche di ciascun Paese, in cambio di un impegno rinnovato in ciascuna capitale (a iniziare da quelle del Sud..) alla sostenibilità dei conti pubblici. Poteva non essere definitiva e perfetta, la proposta della Commissione, si è sgolato a seguire per mesi Gentiloni, ma i governi dei 27 dovevano arrotolarsi le maniche, negoziare con buona volontà e chiudere un accordo entro la fine del 2023. Impensabile, anche per la credibilità degli stock di debito pubblico più “delicati” sui mercati, prolungare ancora la sospensione del Patto decretata a marzo 2020 sull’onda dello shock economico-sanitario della pandemia. Eppure è proprio all’opposto che rischia seriamente di finire la saga del “nuovo” Patto di Stabilità. Senza un accordo concluso e approvato da tutte le parti prima della fine dell’anno, e dunque senza un nuovo framework di regole operativo dal 1° gennaio 2024. Lo ha confermato alla vigilia della doppia riunione dei ministri economici Ue – l’Eurogruppo oggi, l’Ecofin domani – un alto funzionario Ue, ammettendo all’Ansa che a Bruxelles si lavora di fatto già al piano B. «Fino a quando non avremo le regole pienamente incorporate in ogni aspetto del processo sarà inevitabile avere degli elementi di transizione il prossimo anno». Tradotto, in assenza di un accordo tra i 27 la Commissione sarà costretta a escogitare un “diversivo” normativo in grado di coprire la falla, evitando il ritorno in vigore delle vecchie, odiate regole del Patto (rapporto deficit/Pil non oltre il 3%, rapporto debito/Pil non oltre il 60%, ritmo incalzante dei percorsi di riduzione per chi è oltre quest’ultimo).
I nodi del contendere e la mediazione impossibile della Spagna
Un bel pasticcio, di cui oltre ai grattacapi strettamente giuridici sarà interessante capire le modalità di comunicazione/spiegazione alle opinioni pubbliche Ue, quando mancheranno sei mesi alle elezioni europee 2024. Ma tant’è: le trattative tra gli Stati membri sono tanto al palo – dopo che si sono di fatto ri-formati gli schieramenti contrapposti di Paesi “austeri” e “frugali” – che la Spagna, titolare della presidenza di turno del Consiglio Ue, non sarà in grado di presentare neppure a questa riunione dell’Ecofin una nuova proposta legislativa in grado di mettere d’accordo tutti. Lo aveva promesso e ci aveva sperato, il governo (peraltro ad interim) di Madrid. Ma non ci sono evidentemente le condizioni. Sul tavolo dei ministri dunque, a meno di clamorose sorprese, planerà soltanto un documento informale contenente alcune landing zones, ipotesi di “zone di atterraggio” sui nodi principali del contendere. Come noto, essenzialmente due: la richiesta di parametri quantitativi espliciti per i percorsi di riduzione del debito pubblico dei Paesi più esposti, chiesta da mesi dalla Germania e da altri Paesi nordici, da un lato. La richiesta di scorporare le spese per investimento dal computo del deficit, o almeno una loro parte: quelle legate ai fondi Pnrr, ad esempio, e/o quelle per gli investimenti in difesa richiesti dalla Nato e dalla guerra in Ucraina. Richiesta questa che sta a cuore in primis all’Italia.
La «creatività» di Bruxelles e il rischio flop a fine 2023
L’ultimo appello alle cancellerie a salvare il salvabile è arrivato domenica ancora da Gentiloni, intervistato da Monica Maggioni su Rai 3: «L’obiettivo che tutti si debbono porre è di raggiungere nelle prossime settimane un’intesa almeno politica sulle nuove regole di bilancio. Se la raggiungiamo, poi la creatività per creare o immaginare periodi transitori penso sia infinita negli uffici di Bruxelles», aveva anticipato il commissario Ue all’Economia. La speranza più realistica, a questo punto, è che alla riunione dell’Ecofin si raggiunga quanto meno un compromesso politico in grado di consentire la predisposizione di un testo legislativo condiviso in tempo per la successiva riunione dei ministri, a inizio dicembre. Ma è chiaro che i negoziatori Ue camminano ormai su un filo tecnico-politico sottilissimo, senza rete di protezione. E il rischio crescente è che a sciogliere i nodi, in un modo o nell’altro, debbano essere al Consiglio europeo di dicembre i capi di Stato e di governo. Che con la guerra Israele-Hamas in corso (o per allora un indecifrabile dopoguerra tutto da elaborare), quella russo-ucraina a rischio oblio e decisioni cruciali da prendere su tempi e modi dell’allargamento a nuovi scalpitanti Paesi membri (dall’Ucraina alla Moldavia, sino a buona parte dei Paesi dell’ex Jugoslavia) avranno già il loro bel da fare.
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