Il figlio di Sibilla Barbieri: «Ho portato mia madre a morire per amore e ora non ho paura: so di essere nel giusto»
Vittorio Parpaglioni è il figlio di Sibilla Barbieri. La regista e attrice è andata a morire a Zurigo come malata oncologica terminale. Lui invece si è autodenunciato con Marco Cappato alla caserma dei carabinieri di via Vittorio Veneto a Roma. Barbieri secondo la Asl di Roma non era in possesso dei quattro requisiti previsti dalla sentenza Dj Fabo della Corte Costituzionale. In particolare, non era dipendente da una macchina per il sostegno vitale. Oggi Parpaglioni spiega in un’intervista a La Stampa che ha portato sua madre a morire «per amore»: «Ho deciso autonomamente di accompagnarla in Svizzera. Lei non voleva, ma poi ha accettato la mia decisione. Non ho paura. So di essere nel giusto». Vittorio, sua sorella, sua zia e sua nonna hanno anche presentato due esposti nei confronti della Asl del Lazio.
Rifiuto di atti d’ufficio, tortura e violenza privata
L’avvocata Filomena Gallo dell’Associazione Luca Coscioni spiega che negli esposti si ipotizzano i reati di rifiuto di atti d’ufficio, tortura e violenza privata. Parpaglioni spiega a Valentina Petrini di non averlo fatto per farsi imitare da altri nella sua stessa situazione: «Io volevo stare con mia madre fino alla fine e condivido la sua decisione. Accompagnandola ho fatto un atto d’amore. Spero che serva a smuovere le cose per una battaglia di civiltà». Il giorno della partenza «mamma era molto provata. Dipendente dall’ossigeno, ma in aereo non poteva portarlo. Ci siamo così procurati un accumulatore di ossigeno. Non camminava più. Ogni volta che la tiravo su per spostarla dalla sedia a rotelle al sedile della macchina, per esempio, si contraeva per il dolore. Ma era determinata, pur sofferente. Non si è mai lamentata». Gli altri parenti hanno viaggiato con un altro volo: «Venendo con noi avrebbero rischiato l’imputazione».
La seconda volta
Il giorno dopo, il 29 ottobre, Sibilla Barbieri ha incontrato il medico. La prassi in Svizzera richiede che il malato debba confermare la sua volontà a distanza di 24 ore. «Io ero con lei la seconda volta. Mamma ha addirittura chiesto di poter anticipare il prima possibile il suicidio assistito. Non ce la faceva più. Ho avuto paura che potesse morire in hotel». Poi è arrivato il 31 ottobre: «L’appuntamento era alle 10. Quella mattina per portarla dall’albergo alla clinica ho avuto molte difficoltà. La tiravo su dalla carrozzina e la mettevo sulla macchina e come la toccavo urlava dal dolore. Prima di entrare le sono cedute le gambe, io l’ho sorretta, mi ripeteva: tranquillo, vai avanti». Una poliziotta a quel punto le ha fatto la domanda per la terza volta. Lei ha confermato la sua volontà.
L’autosomministrazione
Il figlio ricorda che quando le hanno chiesto se voleva procedere subito con l’autosomministrazione del farmaco letale, «immediatamente ha detto sì, facciamolo subito. Lei soffriva tantissimo. Io e mia sorella le stavamo accanto e le tenevamo la mano. Si è addormentata e dopo forse dieci minuti se n’è andata. Non ha resistito, le infermiere presenti ci hanno detto che evidentemente stava soffrendo troppo ed era arrivata a un limite insopportabile. Ho pianto dopo, durante, mentre le tenevo la mano. Una parte di me ha faticato tantissimo a staccarmi dal suo corpo, il corpo da cui sono nato. Ma ora sento che comunque è libera».
Le responsabilità
Parpaglioni spiega che la madre non voleva la sedazione profonda. «È stata costretta ad andare in Svizzera. Se la Asl le avesse dato l’autorizzazione a morire legalmente a Roma, sarebbe certamente morta a casa. L’avrebbe preferito ma non è andata così e, piuttosto che farsi aiutare nell’anonimato, mamma ha scelto di morire lì per dare un segnale ancora più forte alle istituzioni. Era decisa a difendere i suoi diritti fino alla fine». Il tumore in metastasi aveva raggiunto ormai il cervello. E spera che «il presidente della Regione Lazio Francesco Rocca, come ha chiesto Marco Cappato, accerti le responsabilità di quanto accaduto». E conclude: «Io mi sto assumendo le mie responsabilità. Sono pronto ad andare a processo».
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